Lev Il’ič Mečnikov, un garibaldino russo in Toscana
Recensione al libro Memorie di un garibaldino. La spedizione dei Mille
Dopo una edizione a tiratura limitata promossa dal curatore–traduttore Prof. Renato Risaliti, noto slavista, il libro dell’intellettuale russo–ucraino Lev Il’ič Mečnikov Memorie di un garibaldino. La spedizione dei Mille, sul quale già scrivemmo nel n. 1 (2007) di «Camicia rossa», è finalmente uscito per le edizioni del CIRVI e col patrocinio del Comitato Nazionale per le Celebrazioni del Bicentenario della nascita di Garibaldi.
Il libro di Mečnikov «una delle maggiori personalità russe della seconda metà del secolo XIX» – afferma il prefatore Lauro Rossi, Segretario del Comitato Nazionale – «aggiunge un tassello importante alle pubblicazioni che hanno caratterizzato il bicentenario».
Questo scritto, corredato con 27 disegni a matita, sette a penna e undici acquarelli, tutti di mano dell’autore, scoperto da Risaliti e dallo studioso ucraino Mykola Varvarcev, apparve a puntate nel 1861 in forma di reportage nei numeri di settembre, ottobre e novembre della rivista «Russkij Vestnik», la cui collezione è rimasta fino a pochi anni fa chiusa nell’immenso archivio della Federazione russa a Mosca, in quanto Katkov, il direttore della rivista, era a suo tempo diventato un sostenitore dell’autocrazia zarista.
Lev Il’ič Mečnikov era nato a Pietroburgo nel 1838 da una famiglia aristocratica russa (il fratello Il’ia Il’ič fu premio Nobel 1908 per la medicina) con vasti possedimenti a Charkov in Ucraina. Nel 1859, subito dopo aver conseguita una brillante laurea in matematica, il giovane russo, grande amante della pittura italiana, si reca a Venezia e si immerge nell’arte e nel modo di sentire degli italiani dell’epoca condividendone le loro aspirazioni alla indipendenza ed all’unità. Per questo nel 1860 alla notizia dello sbarco dei garibaldini in Sicilia si sposta a Firenze, dove a Castel Pulci Giovanni Nicotera stava per conto del Generale arruolando un battaglione di camicie rosse che solo dopo notevoli sforzi riuscì a salpare da Livorno per raggiungere Garibaldi.
Lev, che sarebbe stato poi ferito alla Battaglia del Volturno e promosso ufficiale sul campo, in ogni momento della sua avventura tenne questo fedele diario consegnandoci un reportage di prima mano, palpitante e circostanziato, ricco di episodi e di particolari inediti, «grazie al quale» – a giudizio del Prof. Risaliti – «si possono oggi correggere inesattezze storiografiche, ripensare o ridimensionare certi giudizi accreditati e luoghi comuni circa l’Impresa dei Mille e perfino rivedere alcune consolidate teorie sul Risorgimento».
Infatti Mečnikov insiste molto sull’appoggio delle campagne all’impresa di Garibaldi, «in tal senso» – afferma Risaliti – «emergono oggi ulteriori dubbi sulla nota teoria gramsciana della mancata partecipazione contadina al moto di unificazione nazionale». Una partecipazione dovuta anche all’appoggio a Garibaldi del basso clero, soprattutto siciliano, che sobillò i fedeli, contadini e popolani, contro i borbonici. I noti Padre Gavazzi e Fra’ Pantaleo, insieme a Padre Cucurullo, della parrocchia palermitana di S. Giovanni, di cui Mečnikov ci consegna un ritratto avvincente, sono tre dei tanti rappresentanti di questo basso clero che spesso avanza istanze sociali di tipo rivoluzionario. «In ogni caso» – nota Risaliti – «i più stretti collaboratori del Generale non ebbero la sensibilità, né furono all’altezza dell’Eroe, nel capire (o voler capire) i desideri delle masse popolari e soprattutto dei contadini meridionali».
C’è poi da notare che nel reportage il ruolo di Nino Bixio appare molto meno importante e decisivo di quello dei generali Milbitz, Sirtori o Cosenz: sostanzialmente quello di un generale ambizioso e di modeste capacità militari che quand’era in preda all’ira, poteva perfino spingersi a uccidere i suoi soldati.
Lo scritto di Mečnikov si diffonde poi su un aspetto che successivamente, in chiave nazionalistica, sarà non poco sottovalutato dalla storiografia risorgimentale post–unitaria, ma anche dalla stessa memorialistica garibaldina, e cioè sul ruolo importantissimo svolto dai volontari stranieri che costituirono varie, numericamente consistenti e combattive legioni: da quella ungherese, a quella polacca, tedesca, francese, ecc. e fra essi, oltre ad alcuni russi, c’erano perfino degli arabi e un nero.
Un personaggio che emerge a tinte forti dalla descrizione del russo è quello della “terribile camorrista” napoletana Marianna Desclopis, dal “potere assoluto di un pascià turco”, più nota col cognome De Crescenzo (ebbe due matrimoni) e famosa col soprannome di Sangiovannara, che Mečnikov descrive come una donna dall’aspetto selvaggio «un leone o una tigre stretti in gabbia», «dagli occhi che brillavano rabbiosamente». La donna, innamoratasi del Generale pur senza mai averlo mai visto, fece proprio il motto “Libertà–patria–democrazia”, convinse i suoi concittadini ad abbandonare i Borboni e non risparmiò né denari né sforzi per aiutarlo nell’Impresa.
Altro episodio cruciale del reportage è la Battaglia del Volturno. Mečnikov ne fa un racconto epico, con sangue, morti, feriti, atti d’eroismo, fucilate, bombardamenti e incendi, colpi di scena, imboscate, saccheggi e crudeltà. Annota ad esempio che a Caserta i garibaldini, «sei volte inferiori per numero» rispetto al nemico, vinsero non solo per il carisma di Garibaldi e il valore dei suoi ufficiali, ma anche per il triste spettacolo dalle orribili torture praticate dalla soldataglia borbonica sui prigionieri che esacerbò l’animo delle camicie rosse spronandole alla vittoria.
Altro particolare interessante riguarda l’incontro del Generale col re, che realtà non avvenne a Teano, ma a Santo Tamaro, ed il vero scambio di battute fu il seguente: “Salute al re d’Italia”, “Salute al migliore dei miei amici”. Va da sé che non poco tempo dopo, sull’Aspromonte, il Savoia mandò i suoi soldati contro “il migliore dei [suoi] amici” che fu gravemente ferito.
Infine alcune riflessioni sul dopo–spedizione. Nota Mečnikov che all’arrivo delle truppe piemontesi tutti i possidenti terrieri del Napoletano tirarono un sospiro di sollievo perché temevano che Garibaldi facesse una vera rivoluzione espropriandoli dei loro beni per distribuirli al popolo e ai contadini. Ed infatti i primi atti del Savoia furono: l’annullamento dei principali decreti emessi dal Dittatore; la trasformazione dell’esercito garibaldino in esercito meridionale che avrebbe dovuto confluire in quello sabaudo (ma i garibaldini dovettero subire una severa e umiliante prova d’ammissione); il disarmo dei Mille che ad esempio originò alcuni scontri fra piemontesi e calabresi che si erano rifiutati di cedere le armi. Forse anche da questo trasse poi linfa il banditismo meridionale.
Carlo Onofrio Gori