Il Dizionario di Petrocchi
Un manifesto per l’unità della lingua italiana
Un vocabolario, fra Ottocento e Novecento, ebbe notorietà, diffusione e prestigio superiori a quello che (solo per fare un esempio fra tanti) può avere oggi l’ottimo e notissimo Devoto–Oli.
Il Novo dizionario universale della lingua italiana del pistoiese Policarpo Petrocchi, pubblicato dai Fratelli Treves di Milano, uscito a dispense fra il 1884 e il 1890, fu poi raccolto nei due volumi del 1887 e del 1891 e ristampato più volte fino al 1931.
Affiancato da varie edizioni minori e da un vastissimo corredo di grammatiche, antologie e testi scolastici, ugualmente scritti dall’infaticabile Petrocchi ed indirizzati ad un’utenza diversificata, il Novo dizionario fu – come ricordò Luciano Bruschi, autore del fondamentale Policarpo Petrocchi. Un tempo, un uomo – «per oltre mezzo secolo il vocabolario più diffuso in Italia e molto ricercato dagli stranieri (…) perché, utilmente, dà l’indicazione esatta della pronuncia, separando nettamente la lingua viva dalla lingua morta ed è infine, ricchissimo di esempi raccolti dallo stesso autore».
Di quest’opera considerata per lungo tempo il vocabolario della lingua italiana per antonomasia, ancora nel 1952, veniva scritto che «non vi è italiano, anche di modesta cultura, che non conosca ed adoperi anche oggi col massimo profitto il Dizionario Universale di Policarpo Petrocchi». Lo scopo del Novo Dizionario era quello, cominciando fin dai banchi della scuola elementare, di unificare linguisticamente un Paese scarsamente alfabetizzato e talmente diviso dai dialetti che, ad esempio, i numerosissimi emigrati liguri e campani, presenti fin da fine Ottocento in Argentina, riuscivano ad intendersi bene fra loro solo parlando in castigliano.
L’autore, da uomo del Risorgimento e convinto seguace delle teorie manzoniane, aveva, infatti, scritto: «Attenendoci ad una sola misura, stando a una sola parlata, faremo come tanti bravi soldati intorno a una sola bandiera: forti e uniti combatteremo da forti; faremo finalmente un vocabolario, una grammatica sola, chiara, facile anche per gli stranieri che trovan tanto indigesta la nostra lingua: noi tutti allora ci piglieremo più amore e non ci avverrà più di scambiare quelli del nostro paese per inglesi e tedeschi».
Ancora oggi l’opera del Petrocchi, esaurito il suo compito pedagogico, resta la testimonianza più viva e più ricca dell’uso del fiorentino (e del toscano) parlato tardo ottocentesco; ma Petrocchi non si limitò a quest’impresa ed alla sua nota e vasta produzione di letteratura per la scuola. Sempre instancabile lavoratore, anche quando dagli anni Novanta in poi la sua salute cominciò a vacillare, fu brillante conferenziere in prestigiosi circoli culturali, autore di una notevole produzione letteraria e saggistica della quale ci limitiamo qui a ricordare un’ottima traduzione dell’Assommoir di Zola, elogiata dallo stesso autore, il libro di novelle Nei boschi incantati, il volume Fiori di campo. Letture toscane, la commedia I Vespri, un saggio contro l’impresa coloniale italiana in Africa, alcune poesie, altri saggi critici sul teatro popolare, sulla letteratura ed in particolare sul Manzoni e sul Carducci, che di Petrocchi fu sempre amico malgrado nel 1895 avvenisse un memorabile scontro fra i due.
Pistoiese di montagna, Policarpo Petrocchi nacque nel piccolo e suggestivo borgo di Castello di Cireglio il 16 marzo 1852 da Luigi di Francesco e da Carolina Geri. Di famiglia non povera per quei tempi, ma nemmeno benestante, Policarpo fu mandato in città presso lo zio prete a studiare da esterno al locale Seminario. Il ragazzo, intelligente e sensibile, abituato alla libertà agreste, ricordò sempre con amarezza la permanenza cittadina in casa dello zio autoritario, con una zia zitella e frustrata e la nonna rustica, ed anche gli studi non furono brillanti sebbene il livello dell’insegnamento fosse più che dignitoso.
Nel 1869 il giovane Policarpo s’innamora di quella che sarà poi la donna della sua vita, Clementina Biagini, figlia di un noto medico pistoiese e destinata al matrimonio col benestante notaio Arcangeli dal quale successivamente si separerà. Sempre nelle stesso anno abbandona Pistoia e si reca a Martinengo, nei pressi di Bergamo, per insegnare italiano in un collegio fondato da un monsignore amico dello zio prete.
L’anno successivo troviamo Petrocchi ad insegnare a Torino presso l’Istituto del prof. Lanza. Iniziò così l’altra sua fondamentale attività, l’insegnamento, che svolse sempre con passione, sia come precettore presso privati, sia in varie scuole d’Italia, ma soprattutto al Collegio militare di Milano (poi trasferito a Roma) dove così lo ricordava il Maresciallo d’Italia Enrico Caviglia, già suo allievo: «Fra i miei insegnanti egli ha lasciato nella mia memoria, nella mia anima l’impronta più profonda (…) ci apprese ad amare i nostri grandi poeti antichi e moderni (…) Faceva il suo dovere d’insegnante con la coscienza scrupolosa di un apostolo, e nello stesso tempo, per la sua natura franca e leale ci apprese ad esprimere apertamente le nostre idee ed a giudicare con libera mente gli uomini e con spirito critico le idee».
Di quest’indole Petrocchi diede più volte personalmente viva testimonianza come ad esempio nel 1899 quando, vinto il Premio Siccardi con il libro pacifista Le Guerre, trovò coerente presentare le dimissioni (subito respinte) dalla cattedra che aveva al Collegio militare; tra l’altro, con la somma del premio, fece poi lastricare la piazza di Castello di Cireglio. L’amore per Castello, testimoniato dall’opera postuma Il mio paese, fu infatti costante in Petrocchi. Vi tornava da Milano e poi da Roma ogni estate, con la famiglia che diveniva via via sempre più numerosa, e nel 1880 vi fondò la Società Onore e Lavoro con lo scopo di dotare il borgo di quei servizi e di quelle infrastrutture necessarie che l’amministrazione comunale di Pistoia non si decideva a fare.
La gestione della cosa pubblica da parte di una classe dirigente pistoiese giudicata da Policarpo avida ed ottusa fu infatti uno dei suoi principali crucci tanto che nel 1901, lui che a Milano ed a Roma aveva frequentato personaggi del calibro di Filippo Turati o Enrico Ferri, non poté fare a meno di intervenire nelle vicende elettorali cittadine appoggiando, senza successo, lo schieramento dei “partiti popolari” radicali, repubblicani, socialisti.
In politica Petrocchi, dopo una giovanile ammirazione per Cavour e Vittorio Emanuele II, aveva infatti col tempo maturato idee repubblicane. Ciò era avvenuto soprattutto sulla scorta di un’avversione totale per la persona e per la politica corrotta ed antipopolare in cui, dopo i trascorsi garibaldini e di “sinistra”, si era gettato il presidente del consiglio Crispi sostenuto dall’«aiuto potente della compagine monarchica», mentre rimanevano costanti in Petrocchi la stima per Garibaldi e lo spirito fieramente anticlericale.
L’anticlericalismo di Petrocchi, che non fu mai né antireligioso né anticattolico, andava ben oltre il dato storico–politico risorgimentale di avversione al potere temporale, caratterizzandosi per i suoi connotati morali di critica ad un’ipocrisia ecclesiastica il cui peso personalmente aveva già sperimentato in gioventù presso lo zio prete e con la quale si era poi scontrato per la vicenda della sua “illegittima”, ma solida unione con l’amata Clementina Biagini dalla quale ebbe ben sei figli.
E proprio circondato da quattro dei suoi figli e dagli affezionati compaesani, durante l’annuale festa a Castello di Cireglio, lo raggiunse, il 25 agosto 1902, improvvisa la morte, stroncando un’esistenza dedicata alla famiglia, al lavoro, allo studio, all’onestà ed ad alti ideali.
Carlo Onofrio Gori