Vita di Giuseppe Civinini
Un garibaldino pistoiese
Il garibaldino Giuseppe Guerzoni così ricorda la battaglia di Bezzecca, unica vittoria italiana nella malcondotta guerra del 1866: «la strada di Tiarno è tempestata dai proiettili nemici, e Garibaldi (…) è il più visibile e cercato bersaglio. (…) i suoi aiutanti Cairoli, Albanese, Damiani, Miceli, Coriolato, Civinini, gli fanno scudo de’ loro corpi».
Allora Giuseppe Civinini aveva trentun anni, era da pochi mesi deputato pistoiese al Parlamento nazionale, e pur essendosi opposto ad una guerra che «dà intero il paese in mano a la Marmora ed ai suoi compari [che] daranno all’Italia una seconda Novara» aveva sentito il dovere di arruolarsi, al contrario, ad esempio, del Carducci, in quel tempo professore a Bologna, che aveva scritto: «Guerra a’ tedeschi, immensa eterna guerra», ma che non si era sognato, né nel 1859, né allora, di partire. Anche questo spiega l’uomo Giuseppe Civinini che ebbe vita breve, ma coraggiosa ed intensa che lo vide rivestire vari ruoli: cospiratore mazziniano, ufficiale garibaldino, massone, giornalista noto, abile e polemico, politico e deputato appassionato e discusso, uomo di Sinistra e poi di Destra e, forse, affarista. Una personalità complessa, non esente da contraddizioni, che tuttavia, elevandosi dall’ambito pistoiese ad una dimensione nazionale, attraversa gli anni della formazione dello stato unitario, se non da protagonista, non certo da anonima comparsa.
Nasce a Pisa l’11 aprile 1835; nel 1844 muore il padre Filippo, noto medico e professore, e la madre Gioconda Marini torna Pistoia con i figli Giuseppe e Giulia. A soli quindici anni, aderente alla “Giovine Italia” è già ricercato dalla polizia granducale: si rifugia a Liverpool, poi a Genova; estradato in Toscana viene incarcerato, tiene testa agli interrogatori e gli inquirenti sono costretti a rilasciarlo. Seguono sette anni di intensa attività cospirativa che lo vedono alternarsi fra Toscana e Piemonte, ospite frequente sia delle carceri granducali che di quelle del Regno Sardo.
Incontra in questo periodo vari personaggi: a Genova è protetto dal mazziniano pistoiese Francesco Franchini, a Firenze, dove conosce i fratelli Bianchi della tipografia Bianchi-Barbèra, è sospettato di appartenere alla rete del pratese Piero Cironi ed è aiutato dalla marchesa Lucrezia Firidolfi-Ricasoli. Con Maurizio Quadrio prepara poi, senza successo, una insurrezione a Livorno nel 1857, ma due amicizie avranno un ruolo fondamentale nelle sue successive scelte politiche e di vita: quella con il repubblicano lucchese Antonio Mordini e quella col livornese, amico di Mazzini, Adriano Lemmi, poi definito “banchiere” del Risorgimento. Segue quest’ultimo per due anni, prima in Svizzera e poi a Costantinopoli, come istitutore dei suoi figli.
Intanto nel 1859, anno della guerra austro–franco–piemontese, una sollevazione popolare caccia il 27 aprile il granduca Leopoldo II e il Plebiscito del marzo 1860 sancisce l’annessione della Toscana al Regno sabaudo.
Nel 1860 Civinini, superata ormai l’intransigenza mazziniana, inizia la sua fase “garibaldina”: lascia il Bosforo e raggiunge nel giugno il Generale che gli affida incarichi nell’intendenza dell’esercito dove si distingue per competenza e correttezza. Stretto collaboratore di Garibaldi anche nel 1862 ad Aspromonte, ne condivide la prigionia al Varignano e l’esilio a Caprera e, come abbiamo visto, nel 1866 è di nuovo con lui a Bezzecca.
È ormai una “firma” nota del giornalismo politico in cui, già da mazziniano, aveva esordito a Genova collaborando a «L’Italia del popolo», e a Cuneo a «La Sentinella delle Alpi»; ma è a Torino nel 1861 che Civinini diviene redattore e poi direttore della voce del “partito garibaldino” «Il Diritto», di proprietà dell’amico Lemmi e si affilia alla Loggia massonica “Dante Alighieri”, dove trova, tra gli altri, Depretis, Saffi e Mordini. Dopo Aspromonte Civinini si avvicina alle posizioni legalitarie di quella parte dei democratici (Crispi, Bargoni, Mordini, Lazzaro, ecc.) che di lì a poco vengono sconfessati da Garibaldi e afferma: «la guerra che noi vogliamo ora, in Parlamento e fuori non può vincersi a schioppettate e finirà soltanto quel giorno in cui il Re d’Italia salirà sul Campidoglio».
Con la Convenzione di Settembre ed il trasferimento della capitale a Firenze, cui insieme al Crispi si oppone entrando in attrito con l’amico Mordini, Civinini sposta la sede del giornale in Toscana. Conosciuto ormai in tutto il paese, candidato in più collegi per la IX Legislatura, Civinini viene eletto nel ballottaggio delle elezioni suppletive del collegio di Pistoia 2 con 337 voti contro i 317 del moderato Giovanni Camici, appoggiato da «La Nazione», giornale della “Consorteria” di Ricasoli e Minghetti.
Le cifre confermano come il suffragio e la politica parlamentare fossero allora appannaggio di pochi istruiti ed abbienti, tuttavia Civinini, al contrario del suo avversario presenta un programma elettorale e viene appoggiato anche da un manifesto di non aventi diritto al voto.
Nel 1866 Civinini si oppone fieramente alla guerra perché gestita dal governo di Destra e rimprovera i suoi compagni di sacrificare la Libertà all’Unità, rompendo clamorosamente col Crispi relatore di un disegno di legge per la tutela della sicurezza interna della Stato. È costretto così a lasciare la direzione de «Il Diritto» e fonda «Il Nuovo diritto» in un clima di generale rimescolamento politico che favorisce intese fra Destra liberale e Sinistra moderata e che prelude al “trasformismo” degli anni successivi.
Tutto ciò, ed anche la vecchia amicizia col Ricasoli, spiega forse la sua svolta politica del 1867: si candida con la Destra ricasoliana e a Pistoia viene riletto al Parlamento. Quel Parlamento nell’agosto 1868 approvò, su proposta del ministro Cambray–Digny, la concessione della privativa della fabbricazione dei tabacchi ad una regìa cointeressata costituita da una società di capitalisti privati italiani ed esteri. Votarono a favore la Destra governativa e la Sinistra “possibilista” del “Terzo partito” di Mordini, si opposero il gruppo del Rattazzi, la “Permanente” (Destra piemontese), il Lanza e il Sella, la Sinistra del Crispi e la Sinistra radicale di Bertani. Mentre si faceva oppressiva la pressione fiscale dello Stato sulle masse popolari, la convenzione rafforzò i legami fra entourage governativo e capitalismo bancario. Civinini, violentemente accusato sia dal Crispi sia dal Gazzettino rosa di Milano di aver favorito il voto sulla concessione per interessi personali nell’operazione, è trascinato con altri nel primo vero grosso scandalo politico dell’Italia post–unitaria.
Gli accusatori non riescono a produrre prove e Civinini esce assolto dall’inchiesta parlamentare e vincitore dai successivi strascichi giudiziari, ma fra gli storici permane il sospetto che tramite un suo protetto, Salvatore Tringali, abbia ottenuto delle partecipazioni nella regìa, anche se a convenzione approvata.
Tuttavia è vero anche che la morte non lo trovò poi in condizioni economiche floride.
Intanto nel 1870 Napoleone III cade in seguito alla sconfitta nella guerra franco–prussiana, a Parigi si instaura la Comune e il 20 settembre le truppe italiane occupano Roma. Civinini, divenuto direttore de «La Nazione» nel 1869, teorizza ora, non senza contrasti interni al quotidiano, quella politica estera filogermanica attuata anni dopo dal Crispi. Significativo, ad esempio, un suo saggio apparso sulla «Nuova Antologia» dove, tra l’altro, afferma: «occorre tenere per quanto più si può bassa la Francia (…) avere amiche le potenze (…) anti–papali (…) fondarci sopra una solida base conservativa ed (…) anche liberale. Le nostre diffidenze verso la Germania (…) ci esporranno veramente a quei pericoli di cui tanto temiamo (…) fra i clericali di Versailles e i comunisti di Parigi».
Erano le ultime battute della sue vicenda umana e politica: da circa un anno rieletto al Parlamento, il 19 dicembre 1871 moriva a soli 36 anni per un tumore, probabilmente alimentato dallo stress e dai dispiaceri dell’affaire della regìa tabacchi.
Carlo O. Gori