Le amicizie pistoiesi di Giosuè Carducci
Louisa Grace Bartolini e Policarpo Petrocchi
Fra i vari appuntamenti “centenari” di questi ultimi tempi, passati mediaticamente pressoché in sordina, spicca quello di un illustre letterato e poeta toscano: Giosuè Carducci. Le manifestazioni di un paio d’anni fa per il centenario della sua morte, avvenuta a Bologna il 16 febbraio 1907, malgrado l’impegno celebrativo di enti ed amministrazioni, soprattutto emiliane e delle provincie di Lucca e Grosseto, non hanno riscosso l’eco mediatico sperato: grava fatalmente sulla odierna popolarità del grande toscano la consacrata e “pesante” ufficialità alla quale pervenne, principale causa di non poche delle fatiche scolastiche di passate generazioni di italiani costrette ad imparare a memoria molte delle sue poesie, fino a ieri onnipresenti sui libri di testo e delle quali invece troviamo oggi, nei manuali letterari scolastici, solo fuggevoli tracce.
Com’è noto Carducci approdò dalle inquietudini anarchicheggianti della sanguigna giovinezza, durante la quale con lo pseudonimo di Enotrio Romano, seppe interpretare meglio di chiunque altro l’anima democratica–giacobina, repubblicana e laica del Risorgimento, alle posizioni monarchico–conservatrici di una posata e sapientemente “costruita” maturità che lo vide assurgere prima a «poeta vate della nuova Italia» per concludere poi nel 1907 con la definitiva consacrazione internazionale quale Premio Nobel per la letteratura, il primo assegnato ad uno scrittore italiano. Parlare oggi di Carducci è quindi impresa non facile poiché, proprio per il suo percorso poetico e civile, l’illustre intellettuale appare a molti non solo distante da tutto ciò che impregna la vita attuale, ma sfugge anche a quelle suggestioni romantiche che, ad esempio, hanno reso anche sotto il regime sovietico e rendono tutt’oggi vivo e fanno amare a tanti russi un poeta morto già nella prima parte dell’Ottocento, come Puskin.
Tuttavia la personalità di quello che nella maturità fu definito il «poeta di Casa Savoia», proprio perché a suo tempo eccessivamente esaltata, paradossalmente resta a tutt’oggi non sufficientemente indagata: una figura di autore e grande professore protagonista di un’epoca con tanti aspetti che sul piano umano e storico–letterario meritano attenzione proprio perché l’evoluzione degli umori della sua poesia rispecchiano fedelmente quelli dell’Italia borghese tra la fine del Risorgimento e gli anni delle sue prime manifestazioni nazionalistiche e dei suoi (velleitari) aneliti imperialistici. A Pistoia due lapidi dedicate alla breve permanenza di Giosuè Carducci nel 1860, una posta a lato dell’ingresso del già Liceo Forteguerri (oggi Biblioteca Forteguerriana) dove il poeta insegnò e l’altra all’altezza del n. 23 dell’omonima via (a suo tempo via dell’Amore) dove abitò, ricordano che tuttavia il poeta ebbe un rapporto importante con la città toscana.
Nel 10 gennaio 1860 il venticinquenne promettente poeta vi mise piede per la prima volta, per iniziare le lezioni il giorno successivo. Fino a tre anni prima aveva insegnato retorica al Ginnasio di S. Miniato al Tedesco dove Ristori, il 23 luglio 1857, aveva stampato la sua prima raccolta di Rime, poi nel dicembre 1859, era arrivata la nomina che per l’anno scolastico 1859–60 lo destinava, per trasferimento da Arezzo, alla cattedra di lingua e lettere greche al Liceo Forteguerri, (che aveva sede allora come la avrà fino al 1924 nel Palazzo della Sapienza) con stipendio di duemila franchi annui: un po’ di respiro economico per il poeta che in seguito alla tragica morte del fratello Dante (1857) e del padre, medico a S. Maria a Monte (1858), aveva ormai sulle spalle tutta la famiglia che campava lavorando alla collezione Diamante dell’editore fiorentino Barbèra.
Inizialmente in Pistoia abitò da solo, tornando il venerdì dopo le lezioni a Firenze, dove risiedeva la famiglia. La città di Cino gli piacque subito come testimonia una lettera scritta alla moglie il 10 gennaio: «(…) più che si vede, più apparisce bella città: magnifiche, larghe vie, bei fabbricati, monumenti d’architettura e d’arte non punto volgari», ed un’altra inviata il 12 ad un amico pisano: «In Pistoia spero star bene; bella città ariosa, di larghe vie, toscana di monumenti, ricordanze e lingua». Tuttavia i motivi pratici prevalsero ed il poeta poco più di una decina di giorni dopo, il 24 gennaio si raccomandava a conoscenti invocando i loro buoni uffici per un trasferimento al Liceo di Firenze: «(…) ciò più di ogni altra cosa, varrebbe ai miei studi (…), che in Firenze potrei meglio seguitare per le facoltà a grandi che dà la città» (lettera a Salvagnoli, ministro dei Culti nel Governo provvisorio toscano), mentre nella lettera al Gotti faceva leva su motivi economici: «(…) perché lo stipendio che ora ho, in città di provincia, priva per me d’ogni altro modo di guadagno, non basta alla famiglia mia».
Le raccomandazioni evidentemente non funzionarono pertanto nel febbraio lo raggiunse la famiglia allora composta dalla moglie Elvira, dalla madre Ildegonda, dal fratello Valfredo e dalla piccolissima figlia Bice e tutti andarono ad abitare a casa Procacci in via dell’Amore, dove poi, per le onoranze carducciane del giugno 1921 venne apposta la lapide, dettata da Alessandro Chiappelli, che lo ricorda come educatore della «gioventù pistoiese ai grandi destini della Patria risorta». Già, la Patria… il periodo della permanenza del Carducci a Pistoia coincide infatti con eventi che rappresentano una svolta storica per l’Italia e per la Toscana e mentre la “Toscanina”, volontaria “orfana” del Granduca con il sommovimento del 27 aprile 1859, era retta dal governo provvisorio guidato da Ubaldino Peruzzi e si apprestava all’adesione plebiscitaria al nuovo Regno d’Italia, il generale Garibaldi stava mettendo le basi per la sua “impresa dei mille”.
Il pistoiese Francesco Franchini, che Carducci incontra come direttore del Forteguerri è, nell’ambiente, la rappresentanza tangibile di questi cambiamenti. Già combattente a Montanara e ministro dell’Istruzione Pubblica nei gabinetti Montanelli e Guerrazzi in seguito alla prima defenestrazione dei Lorena nel 1848, con la restaurazione granducale si era rifugiato a Genova, per tornare a Pistoia richiamato nel maggio 1959 dal governo provvisorio toscano che con decreto del ministro della Istruzione Pubblica Cosimo Ridolfi gli aveva affidato la direzione del Liceo cittadino. Al Forteguerri Carducci ebbe validi colleghi come ad esempio Pietro Bozzi, ordinario di diritto romano e patrio, e Giuseppe Tigri, direttore della Biblioteca Forteguerriana, (a quei tempi unita al Liceo) che nel 1856 aveva pubblicato i Canti popolari toscani, la sua opera più importante.
L’insegnamento del greco gli provocava non poca fatica e finalmente con decreto dell’11 marzo 1860 ottenne di passare alla cattedra di italiano e latino e per l’occasione tenne secondo l’uso del tempo, una pubblica prolusione «…troppo dotta per i dotti pistoiesi» come ebbe poi a scrivere in una lettera a Giuseppe Chiarini del 3 maggio. Mostrò generalmente sempre scarsa stima per il mondo culturale pistoiese, ma una prima eccezione la fece per Louisa Grace, aristocratica irlandese, molto colta ed innamorata dell’Italia che seguendo i consiglio della sua guida spirituale don Angelico Marini, originario di Barile presso Pontelungo, patriota e letterato, aveva scelto di abitare a Pistoia fin dal 1841.
Pittrice, letterata, traduttrice, la Grace, volendo proseguire la tradizione culturale di Niccolò Puccini (presso la cui casa aveva inizialmente abitato) in quegli anni fece della sua abitazione di via della Madonna il ritrovo più dotto della città. Il salotto dell’amica Louisa, fu per il poeta, fin dal primo invito del 12 gennaio l’unico ambiente “frequentabile” durante la sua permanenza a Pistoia: oltre al Marini vi incontrò personaggi come Giovanni Procacci, Mariano Bargellini e vi invitò i suoi giovani amici, il Chiarini e Giuseppe Gargani, gli “Amici pedanti”. L’amicizia con Louisa rimase sempre forte anche dopo che questa il 17 febbraio 1860 si sposò quarantaduenne con l’ing. Francesco Bartolini di tredici anni più giovane e dopo che Carducci, uspice Terenzio Mamiani, otterrà nell’agosto la cattedra di eloquenza italiana in quell’Università di Bologna iniziando dal novembre dello stesso anno un lunghissimo periodo di insegnamento che durerà fino al 1904.
Ma il Carducci anche dopo il trasferimento a Bologna non dimenticò l’amica ed iniziò un carteggio costituito da ventinove lettere del poeta e quaranta della corrispondente, che durò fino alla morte di lei avvenuta il 3 maggio 1865: corrispondenza interessante che ci offre uno spaccato dell’ambiente da cui il Carducci si distacca e di quello prestigioso in cui entra, ma anche denso di fatiche ed ansie di ogni genere.
Ma frequenti furono fra i due anche gli incontri, qualche volta a Bologna, ma soprattutto a Pistoia, anche in occasione di incarichi ufficiali, come quando il poeta nel 1867 fu chiamato a far parte di una commissione per il concorso ad alcune cattedre nel Ginnasio comunale e quando nel, 1877 fu ispettore ministeriale al Liceo Forteguerri.
Dopo la sua morte dell’amica, il Carducci scrisse su di lei il saggio critico Louisa Grace Bartolini in cui viene reso omaggio più che alla pittrice o alla letterata, soprattutto all’esperta traduttrice e la divulgatrice in Italia del poeta statunitense Henry W. Longfellow (1807–1882) e dello storico Thomas B. Macaulay (1800–1859), l’autore dei Canti di Roma antica.
Interessante anche l’amicizia fra Carducci e Policarpo Petrocchi. Nel corso degli anni Carducci fu uno dei poeti più amati dal lessicografo pistoiese, a sua volta apprezzato dal «vate della nuova Italia». In particolare, ricordiamo due episodi significativi delle loro frequentazioni: il primo dei quali riguarda la visita fatta dal Carducci a Cireglio, invitatovi da Policarpo quando questi, nel luglio del 1881, era andato a trovare il poeta nella sua dimora di Bologna, riportando, oltre alle lodi del padrone di casa per i suoi scritti (in particolare la traduzione dell’Assommoir), una buonissima impressione della città che vedeva per la prima volta, dei suoi abitanti e della vita che vi si svolgeva.
La visita venne ricambiata nell’agosto seguente, il giorno 4, dopo che Carducci, giunto in treno fino a Pracchia, in compagnia dell’avvocato Giuseppe Barbanti Brodano, giornalista e uomo politico socialista, fu accompagnato in calesse a Cireglio dallo stesso Petrocchi: visita del paese, escursione in montagna (al Sasso di Cireglio, un colle di circa 800 metri), pranzo al Castello, il tutto ravvivato da recitazione di poesie (di Renato Fucini, di Giovanni Rizzi, dello stesso Giosuè), discussioni letterarie (sul Manzoni, sulla lingua italiana), chiacchiere amene riguardanti «mille cose». Gli ospiti poi, dopo una tazza di «caffè arabo» offerta dall’avvocato Petrocchi, zio del nostro, trascorsero la notte in paese nella modesta casa petrocchiana, per ripartire, l’indomani mattina, in un legno condotto da Policarpo, alla volta dell’Abetone, dove incontrarono Renato Fucini.
I rapporti di Petrocchi con Carducci continuarono cordiali ed abbastanza intensi per anni. Nel 1890, per esempio, alla nomina del poeta a senatore del Regno, Policarpo gli dedicò un’ode di buon augurio. Non sappiamo molto altro, dal momento che nell’archivio dei Carducci si trovano, di Policarpo, poche lettere di modesto interesse e sparite risultano le lettere del poeta dall’archivio Petrocchi, al pari di altri carteggi, annate dei diari e altri manoscritti, andati distrutti o dispersi.
Siamo meglio informati ‑ ed è questo il secondo episodio, che si intende evidenziare, perché illumina alcune fondamentali caratteristiche dell’animo e del carattere petrocchiani ‑ sul tragicomico diverbio che, se non li divise per sempre, certo raffreddò alquanto, da lì in poi, i loro rapporti, come testimonia un certo risentimento ancora avvertibile nella versione “autentica” del fatto, offerta dallo stesso Petrocchi ad alcuni anni di distanza. La scenata avvenne a Roma nel 1895, nella trattoria del sor Enrico in Santa Maria in Via, presso l’angolo di Via dei Crociferi, poco dopo la pubblicazione dell’ode scritta da Carducci per celebrare le nozze di Francesco Crispi; a tavola c’erano, oltre ai due protagonisti ed altri commensali, anche Cesare Pascarella e Mario Menghini:
«Oggi è uscito il fascicolo della “Rivista d’Italia” nella quale una moltitudine di autori parlano del Carducci: è accidentato, è vicino a finire, e gli spargono l’ara di fiori. Certo questo non è male, è bene. Il Menghini nel Carducci a Roma cita quelli che andavano a banchetto con lui, e dice: “qualche volta Petrocchi, incorreggibile indagatore di frasi carducciane”. Una sciocchezza senza scopo e senza sale, mancante d’ogni e qualunque fondamento di verità. Ci andai a colazione parecchie volte, invitato sempre dal Menghini, e non con quel piacere che credeva lui, giacché la conversazione carducciana è quel che può mai essere di desolante: un monte di stranezze e di cose senza senso che dice abbandonandosi, fors’anche per bisogno d’ingoffarsi, come direbbe Machiavelli, alla corrente de’ commensali, e buttando là giudizi avventati ed insolenti, a cui non si può rispondere come si vorrebbe. Una volta a tavola il Carducci diceva plagas di Cavallotti, di Milano e di Crispi. Io tacqui; ma il Della Porta interloquì, e per provare quanto Crispi fosse un gran galantuomo e il Cavallotti un birbante, si mise a citare un aneddoto sciocco. Io sdegnato l’interruppi: “Ma smettetela: codesto Crispi è il più gran mascalzone che abbia avuto il Regno d’Italia”. Carducci s’alzò invelenito, prese il coltello, pareva che mi volesse fulminare; io lo guardai imperterrito, mi disse: “Esci!”. “Eh, se non è per questo non mi par vero!” gli dissi. “Tu sai come la penso”. “Io so che sono un uomo libero”. E andando via, m’accompagnò con questa frase sardonica: “Un toscanello che s’è fatto manzoniano a Milano”. E io di rimando: “Se mi son fatto manzoniano…”. “Che dici?”. “Se mi son fatto manzoniano è perché non mi son mai fatto servo di nessuno”. E me n’andai».
In seguito i due ebbero modo di rivedersi, grazie al generoso e riuscito tentativo di rappacificazione voluto da alcuni comuni amici: Policarpo stesso racconta che, dopo la sfuriata, «a Carducci sbollì l’ira, se ne pentì, fece gli elogi di me agli altri, disse d’esser un uomo che non sa più stare in società. E non mi curavo più di lui quando Pascarella e Menghini, poiché il Carducci domandava sempre di me, vollero a ogni costo che si rifacesse la pace; si può dire che quando veniva a Roma dal ‘95 in poi, io mi son quasi sempre trovato con lui. Dunque il valore di qualche volta non è esatto; il rimanente poi è una sciocchezza senza senso, perché non ho mai scritto, né pensato a scrivere nessuna frase carducciana. Se mai erano loro invece che pescavano le mie toscane, e il Carducci le rilevava, e le difendeva. L’ultima, su cui si fermò a lungo, e che disse di voler inserire in qualche scritto “perché la buona lingua bisogna difenderla”, fu la parola cimolo».
Altri confermano ed ampliano la suddetta versione: «(…) il Carducci era incapace di risentimenti, e quando il Pascarella gli domandò prudentemente se gli sarebbe dispiaciuto rivedere il Petrocchi, s’affrettò a dire che non aveva nulla contro di lui. Il Petrocchi, avvisato dal Pascarella, prese parte pochi giorni dopo con il Carducci ed altri ad una gita a Frascati, e il Carducci lo accolse e lo trattò in modo da dimostrargli d’aver dimenticato l’incidente spiacevole. A colazione il Petrocchi, seduto accanto al Carducci, stava sfogliando un finocchio e aveva liberato dalle foglie esterne e più dure il bel grumoletto bianco, quando il Carducci si voltò ed esclamò: “O Petrocchi me lo dai a me codesto bel…” e si fermò a cercare la parola che non gli veniva in mente. “Cimolo…” suggerì il Petrocchi, poiché tale parola si usa comunemente per grumolo a Pistoia e in altri luoghi. Ma giungendo essa nuova alle orecchie di quasi tutti i presenti, scoppiò una gran risata e per tutta la giornata quel “cimolo” fece le spese dell’allegria della comitiva. Un anno fa, quando il Carducci era già debole, ed il parlare cominciava ad essergli difficile, il Pascarella volle vederlo, e trovatolo malinconico gli rammentò le gite fatte insieme nei dintorni di Roma e fra le altre quella di Frascati insieme al Petrocchi ed altri. Il Maestro allora sorridendo accennò a voler dire qualcosa; ma poiché la parola fu meno pronta della volontà, fece un gesto con le piccole mani indicando la forma di qualche cosa. Il Pascarella indovinò subito, e disse: ‑Il cimolo!‑ Ed il Maestro rise. Non aveva dimenticato neppure quell’episodio».
Un ultimo incontro avvenne a Bologna il 2 gennaio del 1902: «A Bologna (…) sono andato diritto dallo Zanichelli. M’à detto che il Carducci starà poco a venire al negozio, e m’à insegnato dove sta lo Gnaccarini, genero del Carducci. Son andato da lui con un biglietto dei Salveraglio; ma ci si conosceva di già. Gli ò chiesto notizie biografiche del Carducci; me L’à promesse, à detto che se n’interesserà con amore (…) Dopo son andato dal Carducci nel negozio dello Zanichelli, e Vò trovato dimagrito assai e con le linee della bocca assai cambiate. M’à accolto bene, m’à dato il suo ritratto e dei ritratti da portare a’ Figlioli dei Chiarini, m’à detto d’aver letto il mio Numero dantesco e d’averlo trovato vero; m’à presentato al prof. Setti e al prof. Livi e al Della Lega. Il Livi m’à presentato al direttore del liceo Mamiani; e tutt’e due sono entrati in discussioni di lingua, ancora vive a Bologna».
Ma neppure quest’ultimo incontro riuscì a rasserenare del tutto il clima dei rapporto fra Carducci e Petrocchi, se quest’ultimo, che pure aveva dato recentemente, nel suo Thesaurus, un ritratto penetrante e complessivamente positivo (ma non certo accomodante) del poeta maremmano ‑ di cui ammirava sommamente le qualità letterarie, assai meno quelle filosofiche, cercando anche di spiegare razionalmente la sua “conversione” alla monarchia, giungeva ad annotare con evidente amarezza, nel maggio dello stesso 1902: «è uscita la seconda edizione delle poesie carducciane; a me non l’à mandata, e non la manda certo. È inutile negarlo: il Carducci à sullo stomaco ancora la famosa scenata di Crispi e il manzonianismo paventato».
Ma forse, in quest’occasione, Policarpo peccò in pessimismo: infatti, il 15 agosto 1905, il figlio maggiore del Petrocchi, Carlo, riceveva da Alberto Bacchi Della Lega, collaboratore, amico ed, infine, segretario affezionatissimo di Carducci negli ultimi anni della vita del poeta, il seguente biglietto: «Fu un uomo buono e valente ed io l’amai molto – così mi disse di scriverle il prof. Carducci che della sua mano inferma non può valersi a risponderle di persona».
E il poeta della terza Italia non era uso a mentire: «Alla cortesia nessuno è obbligato, quando per esser cortese bisogna esser bugiardo».
Carlo Onofrio Gori