Il risorgimento dei Macchiaioli
Pittori rivoluzionari e patrioti democratici
Un famoso e bel ritratto di Garibaldi, dipinto da Silvestro Lega, è stata forse l’icona più ricorrente delle recenti celebrazioni del Bicentenario. Il romagnolo–toscano Lega, che fu tra gli ultimi ad aderire alla corrente dei Macchiaioli, per divenirne alla fine protagonista assoluto, lo tratteggiò nel 1861 sull’onda di un suo incontro con l’Eroe avvenuto tre anni prima a Modigliana, dove il Generale si era recato per incontrare don Giovanni Verità, il sacerdote che nel 1849 lo aveva messo in salvo quando, dopo il fallimento della resistenza della Repubblica Romana, era braccato dagli eserciti nemici.
Questa immagine corrucciata del Generale (che farà pendant con l’altro suo famoso ritratto di Mazzini morente) nella quale Lega, mazziniano coerente e “garibaldino”, sembra alludere anche al suo rammarico nel vedere delusi, all’indomani dell’unità italiana, gli ideali democratici in cui credeva e per i quali si era battuto, ci da l’occasione per ricordare questo movimento di giovani pittori, impegnati a superare accademie e romanticismi per ritrarre la natura dal vero, sviluppatosi a Firenze dalla seconda metà dell’Ottocento in parallelo all’insorgere delle passioni politiche e delle aspirazioni di unità e indipendenza suscitate dai moti popolari del ‘48.
Nei macchiaioli la volontà di rifondare il linguaggio artistico sarà infatti sempre strettamente legata alla forte tensione morale e al coinvolgimento nell’azione politica, ed uno degli elementi accomunanti di questo gruppo di ammiratori di Mazzini e di Garibaldi sarà costantemente la condivisione dei valori di patriottismo e di democrazia, una democrazia dai connotati anche molto radicali, con evidenti propensioni verso il socialismo, come ad esempio avverrà per Telemaco Signorini e Diego Martelli.
Com’è noto il termine “Macchiaioli” fu coniato in senso dispregiativo da un anonimo giornalista in un articolo comparso sulla «Gazzetta del Popolo» di Torino del 3 novembre 1862, ma quei pittori vollero polemicamente adottare il nuovo termine con una accezione positiva, come definizione e “segno” di un vero e proprio movimento operante nel periodo del trapasso dal gusto romantico a quello verista.
II ritrovo culla e simbolo dei pittori fu il Caffè Michelangiolo, che non era nella zona del famoso omonimo Piazzale, come un distratto recensore di recenti mostre è stato indotto erroneamente a pensare, ma era giù in città, nella medicea via Larga (oggi via Cavour), già da allora una delle più belle strade di Firenze, a due passi dall’Accademia.
Il Caffè, che oggi non esiste più, si componeva di due locali, uno dei quali, come possiamo vedere in un famoso dipinto di Adriano Cecioni, fu decorato dagli artisti che lo frequentavano, e proprio in quella stanza già dal 1849–50, avvennero le prime vivaci ed informali riunioni.
Gli artisti che costituirono quel nucleo “storico” e principale del movimento furono i fiorentini Cecioni, scrittore e scultore oltre che pittore, e Raffaele Sernesi; il livornese Serafino De Tivoli, il pisano Odoardo Borrani, il pesarese Vito D’Ancona; a loro si aggiunsero via via poco dopo il napoletano Giuseppe Abbati, il veronese Vincenzo Cabianca ed i fiorentini Telemaco Signorini e Diego Martelli, quest’ultimo ancora giovanissimo, che della corrente diverrà critico intelligente e mecenate sensibile.
Il periodo più vivo dei loro approfondimenti va dal 1854 al 1860, ma è dal 1856 che, con l’apertura al pubblico della collezione – ricca di capolavori della migliore pittura contemporanea francese (compresi quelli della scuola di Barbizon precorritrice dell’impressionismo) – conservata nella Villa Pratolino del principe Anatoli Demidoff e con l’arrivo nel gruppo del napoletano Domenico Morelli, del foggiano Francesco Saverio Altamura e del livornese Serafino De Tivoli, tutti reduci dalle esperienze artistiche parigine, le iniziali e confuse aspirazioni e sperimentazioni della corrente trovarono via via approdo in una maturazione più concreta che individuò chiaramente nell’accentuato contrasto timbrico e chiaroscurale della “macchia” il principio fondante di una nuova maniera.
Dalla fine degli anni Cinquanta confluiscono nei macchiaioli altre importanti figure di artisti che contribuiranno a caratterizzare in modo indelebile la corrente: Giovanni Fattori, Raffaello Sernesi, Giovanni Nino Costa, Federico Zandomeneghi, Silvestro Lega, Giovanni Boldini, e di tanti altri poi considerati dalla critica “minori”.
Ed è proprio in questi anni, con la guerra del 1859 e la fine del Granducato di Toscana e poi nel 1860 con l’Impresa dei Mille, che si apre un altro decennale e decisivo capitolo del movimento, riguardante non solo la ricerca pittorica, ma anche una partecipazione attiva di molti macchiaioli alla battaglie del Risorgimento.
Borrani, Cabianca, Signorini, Martelli partirono volontari nel 1859, gli ultimi due con Garibaldi, come fu nel 1860 col Generale, Abbati, che nella Campagna meridionale perderà l’occhio destro, mentre Martelli tornerà con l’Eroe in quel fatale 1866, lo stesso in cui Sernesi, ferito e catturato in battaglia morirà a Bolzano prigioniero degli Austriaci a soli ventisette anni. Anche nel 1867 il romano Nino Costa, garibaldino convinto, che tanta influenza esercitò sulla pittura dei fiorentini ed in particolare su Fattori, sarà col Generale a Mentana, come lo era stato nel 1848 durante la Repubblica Romana e sarà, tra l’altro, uno dei primi ad entrare in Roma liberata dal potere pontificio nel ‘70.
Ma anche chi non partì in questi frangenti, darà poi il suo contributo sul piano artistico, ed è questo ad esempio il caso di Giovanni Fattori, pittore livornese (insieme con Signorini e Cecioni, teorico del gruppo) che anche se non si misurò sui campi di battaglia, fu in molti modi, fin dal ‘48, sempre dalla parte dei patrioti, traendo ispirazione per tutto il resto del suo percorso artistico dai temi e soggetti di ambiente militare, destinati a divenire l’aspetto più noto, ma forse – fatte salve due o tre opere – non migliore, della sua produzione. Risultò, tra l’altro, vincitore del famoso concorso, promosso alla fine del 1859 da Bettino Ricasoli, riservato ad opere artistiche che si collegassero al soggetto militare risorgimentale, filone nel quale poi si confronteranno un po’ tutti i macchiaioli, da Lega a Signorini. Dell’opera di Fattori vale la pena qui ricordare, tra i tanti suoi famosi dipinti “militari”, il noto, semplicissimo e straordinario In vedetta con i tre soldati a cavallo che vengono quasi proiettati contro il muro calcinato e l’orizzonte piatto per il calore, e l’aspra immagine de Lo staffato, opera tarda del 1880, che possiamo decifrare anche come simbolo dei sentimenti di dramma e di disagio suscitati in lui dal tradimento degli ideali del Risorgimento, nella quale un cavalleggero viene trascinato a morte dal cavallo che lo ha disarcionato lasciando sul terreno ampie strisce del suo sangue.
Occorre inoltre ricordare che anche il “nostro” Lega (che nel 1848 non aveva esitato ad arruolarsi volontario nel secondo Battaglione Fiorentino insieme al fratello Carlo e ad altri artisti fiorentini, fra i quali Serafino De Tivoli, partecipando all’assedio di Mantova e alla battaglia di Curtatone), fornirà un’immagine indelebile della guerra del ‘59 col suo famoso quadro in cui raffigura alcuni austriaci condotti prigionieri da nostri bersaglieri.
Del resto, osservando i quadri realizzati soprattutto intorno al 1859, vediamo che protagonista di vari dipinti macchiaioli è il tricolore italiano, e non sarà difficile individuare rapidi accostamenti di bianco, rosso e verde, talora assai minuti, segnali a volte furtivi e allusivi di un fervore patriottico autentico, presenti altre volte in maniera esplicita, ad esempio, ne La prima bandiera italiana in Firenze nel 1859 di Altamura e ne Il 26 aprile 1859 di Borrani, che ricorda il giorno antecedente la partenza da Firenze del granduca Leopoldo II, costretto a furor di popolo a lasciare la Toscana.
Durante lo scorrere degli anni Sessanta quella passione patriottica che aveva animato gli artisti, e che indurrà alcuni di loro nel 1866 a lasciare i pennelli per prendere nuovamente il fucile, è progressivamente delusa dall’assetto politico che sta prendendo la nuova Italia unita, anche perché, dopo l’annessione del Veneto, rimangono aperte le ferite del Trentino e di Roma non ancora liberati.
È un periodo in cui tutto l’entusiasmo e la passione dei pittori si rivolgono ad un’attività febbrile che vede lo sviluppo e la precisazione della tecnica di macchia e che si esprime in sedi decentrate rispetto a Firenze e cioè nelle esperienze parallele, ma a volte anche dialetticamente differenti, avviate ambedue dal 1861 e concentrate attorno ai due cenacoli artistici, impropriamente poi definiti “scuole”, del litorale di Castiglioncello, e della campagna fiorentina di Piagentina.
A Castiglioncello Diego Martelli aveva ereditato una tenuta nella quale ospiterà per lunghi periodi i suoi amici pittori, che scoprono mare, radure e la luce stupenda delle albe e dei tramonti sulla costa, una natura oggi ahimé urbanizzata, ma allora splendida ed incontaminata, che si tradusse nelle mirabili Vedute e Marine di Abbati, Sernesi e Borrani, ma soprattutto nelle solari tele di Fattori, affermatosi a partire dal ‘67 come la figura dominante del gruppo. L’anima vera di Piagentina, nella campagna appena fuori Porta alla Croce, è invece Silvestro Lega, ospite dell’amico editore Batelli in un casolare vicino al punto (oggi coperto dalle strade e inglobato dalla città) dove il torrente Africo si butta(va) nelle verdi acque dell’Arno.
In questi due luoghi i pittori dipingono en plein air e ragionano di ombre, di luce, di colore, ma anche di relazioni con la vita politica, sociale, intima, da cui per loro l’arte non può esser disgiunta, maturando nel contempo la convinzione che nell’Italia, ormai quasi del tutto unita sotto il segno della monarchia sabauda, è ormai soffocata quella rivoluzione politica democratica ed egualitaria in cui loro avevano sperato e per la quale si erano battuti insieme a tanti altri artisti e intellettuali.
Ed è in reazione al “tradimento” degli ideali mazziniani e dell’azione di Garibaldi, che i pittori trovano via via sbocco emotivo ed etico, sia nella calma ed evocativa ricerca illuministica di Castiglioncello, che evidenzia la bellezza dei luoghi in riva al mare e ispira la nostalgia dell’uomo moderno per la quiete del tempo passato, sia nella rappresentazione della vita quotidiana fra i casolari degli orti di Piagentina, intesa da Lega nella “purezza della forma dei maestri del Quattrocento” e con le spalle significativamente ben volte alla nuova Capitale del Regno e a quelle vecchie mura fiorentine che nel 1866 verranno distrutte.
Nel 1867, Telemaco Signorini sul «Gazzettino delle Arti del Disegno», giornale ideato, edito e diretto dallo stesso pittore, tracciò in venticinque articoli un panorama dettagliato del movimento macchiaiolo, connotandolo come centro innovativo e fucina di soluzioni nuove, riconoscendo nella pittura naturalistica la forma d’arte più consona e rappresentativa del suo tempo nella fedeltà ad un paesaggio morale, prima ancora che naturale.
La chiusura del «Gazzettino» (1868) coincise con la fine del periodo di maggior coesione del gruppo, che si andò progressivamente disperdendo dalla fine degli anni Sessanta per varie vicende, fra cui la morte di Abbati, e come abbiamo visto, di Sernesi, mentre Martelli e altri affrontavano il rapporto e il confronto con la contemporanea pittura impressionistica francese.
Finiva così la straordinaria esperienza di questa corrente artistica, e con essa una felice stagione creativa e ineguagliata nella pittura di tutto l’Ottocento italiano per il numero e la qualità dei pittori che vi presero parte.
Il movimento macchiaiolo fu deriso e non amato dai benpensanti del tempo e, per moltissimi anni, pressoché ignorato dalla cultura ufficiale italiana, ma, come dimostrano le numerose importanti mostre in questi ultimi anni a loro dedicate (e soprattutto e significativamente nel 2007, anno del Bicentenario di Garibaldi), il tempo è stato galantuomo con questi appassionati maestri, fuori dagli schemi virtuosi delle accademie e del purismo artistico, e capaci, ancora oggi, di parlare al cuore di quella gente semplice e dignitosa che loro raffigurarono con tanto amore e partecipazione e con una suggestione che mantiene intatta tutto il suo fascino.
Un riconoscimento postumo e doveroso per chi, come loro, si dimostrò autentico artista, artigianalmente votato ad un mestiere sentito con dedizione assoluta, nel raccordo fra arte e società e nel solco della tradizione schiva, non “gridata”, ma fedele ed autentica in quanto sinceramente democratica e progressista, dell’etica risorgimentale.
È questa l’Italia seria, intraprendente, intelligente, tollerante, civile e giusta che tanti connazionali, a partire dal Generale, avrebbero voluto, e che ci è storicamente troppo sovente mancata, e ci manca.
Carlo O. Gori