Francesco Benedetti, poeta carbonaro
Pistoia 1821: suicidio di un cospiratore
Sono le 5,30 della sera del primo maggio 1821 ed una carrozza postale, partita da Lucca alle 9,30 del mattino e diretta a Firenze, giunge nei pressi di Pistoia. La vettura si ferma alla locanda di Giuseppe Bracciotti, posta fuori Porta Lucchese e mentre il procaccia Luigi Ragghianti esce da cassetta occupandosi dei cavalli, scendono anche i passeggeri.
Uno di questi, un signore ancora giovane, di modesta statura e piuttosto pingue, ma dal portamento fiero ed accigliato, chiede all’oste una camera ariosa: ottenutala, prega un servitore della locanda di entrare in città e recapitare un suo messaggio all’indirizzo del prof. Pietro Petrini.
In attesa della risposta e della cena, fissata per le 6,30 ed alla quale ha accettato di partecipare insieme agli altri viaggiatori, esce dalla locanda e passeggia un po’ con uno di questi, il gioiellire fiorentino Masini: fumano ed il Masini cerca di attaccare discorso. Impresa ardua per lui perché il giovane signore è rimasto taciturno per tutto il viaggio, soltanto al confine fra Ducato di Lucca e Granducato di Toscana, durante il controllo alla Dogana del Cardino, ha mostrato una grande ansia e poi quando ha visto i gendarmi lucchesi consegnare un giovane in catene ai loro colleghi toscani ed ha constatato come quest’ultimi maltrattassero il prigionero, rivolto al Masini ha sussurrato: “Ogni mezzo è santo, pure di non finire mai fra quelle mani”. Il gioielliere comunque ora si lamenta con lui della scarsa qualità del tabacco che ha sempre trovato a Pistoia e l’austero signore gli offre il suo sacchetto di buon tabacco, al rifiuto del Masini di accettarlo tutto risponde: “Prendetelo perchè quando avrò finito questo che ora fumo, non ne avrò più bisogno”. Tornano alla locanda, il signore si ritira nella sua camera per cambiarsi, indugiandovi un po’ troppo, mentre i commensali già da tempo sono a tavola e lo stanno aspettando con impazienza per iniziare la cena: viene mandato a chiamare, risponde che scenderà subito, ma poco dopo si ode uno sparo. Tutti salgono e lo trovano esanime: colpo alla testa, suicidio.
La tragica vicenda, avvenuta nell’edificio dell’attuale Via Nazario Sauro n. 175, destò notevole sensazione in Pistoia soprattutto quando si seppe che il taciturno viaggiatore rispondeva al nome del poeta, tragediografo e storico cortonese Francesco Benedetti, e che su di lui pendeva un mandato di arresto perché coinvolto nel processo istruito a Firenze alla fine dell’aprile 1821 contro i carbonari toscani in seguito al quale, tra l’altro, verrà poi condannato in contumacia anche il poeta estemporaneo pistoiese Bartolomeo Sestini, organizzatore della setta a livello italiano che Benedetti da tempo ben conosceva.
In quei giorni le truppe austriache, braccio armato della Santa Alleanza, avevano appena stroncato nel Napoletano ed in Piemonte i moti costituzionalisti iniziati nel 1820. Nel Granducato si vuol dimostrare a Vienna un soddisfacente zelo inquisitorio anche se, per intelligente scelta politica, non si vogliono creare martiri: in cambio della delazione si promette ai carbonari arrestati riduzione di pena o libertà. Alcuni parlano e indicano, pur cercando di sminuirne le responsabilità in seno all’organizzazione settaria, anche il nome di Benedetti.
Il poeta, che a nostro avviso non era in seno alla Carboneria toscana un personaggio affatto secondario, sente imminente l’arresto: scappa dalla sua abitazione fiorentina di via della Scala e si dirige verso il porto di Livorno proponendosi di riparare in Inghilterra, ma a Pontedera si rende conto che il suoi documenti non sono sufficienti per quel tipo di espatrio. Perciò si sposta a Pisa per avere un consiglio dall’amico prof. Carmignani e questi gli suggerisce di provare a richiederli al Ducato di Lucca, perciò passa il confine: niente da fare perché, ovviamente, i lucchesi si dichiarano incompetenti indirizzandolo alla sede della Legazione Toscana. Affranto, Benedetti pensa allora di restare in territorio lucchese rifugiandosi nella villa di campagna dell’amico Giovanni Caselli, suo sodale letterario e politico. Viene invece, pare per ordine del proprietario, sollecitato dal personale di servizio a partire. Disperato si rassegna a ripassare il confine ed a tornare verso Firenze e, per il suo alto senso della responsabilità e dell’onore, pone fine a Pistoia alla sua breve e non facile vita.
Francesco era nato a Cortona il 5 ottobre 1785 da Pasquale e da Rosa Tamburi, merciai caduti in miseria. Per compiere gli studi dovette prima entrare nel Seminario della sua città e solo con un sussidio del suo Comune nativo potè poi laurearsi in legge a Pisa. Ugualmente fu da questo aiutato ad avviare uno studio legale a Firenze, città dove, salvo brevi soggiorni a Cortona, risiedè costantemente. Fece poco l’avvocato, preferì dedicarsi, oltre alla cospirazione politica, ad intensa attività culturale. Nei suoi pochi anni di vita scrisse moltissimo: delle sue undici tragedie, per lo più ispirate a modelli classici, ad Alfieri e a Metastasio, sette vennero rappresentate ed una, il Telegono, fu particolarmente apprezzata dal Monti.
Ben più intensa la sua ispirazione poetica, infatti «oggi si rivalutano», – come afferma un critico particolarmente attento alla poesia toscana, il monsummanese Giampiero Giampieri – «soprattutto le sue odi civili, all’Italia (1814–1815), ma anche Per la nascita del Re di Roma (1811), l’Ode IV (1814) sul Murat, quelle per la concessione della costituzione spagnola del 1820 e altre ispirate a sentimenti di amicizia o di dolore. Poesie patriottiche interessantissime ed anche belle, neoclassiche eppure ricche di elementi visionario–romantici che ai suoi tempi furono apprezzate da Giambattista Niccolini e da Vincenzo Monti e nelle quali si avverte un’aria di famiglia col grande Leopardi della canzone All’Italia».
Pubblicò a Firenze nel 1816 il «Giornale di letteratura e belle arti», si dedicò a saggi storici, ebbe un’intensa attività epistolare. Ricevette anche premi e riconoscimenti ufficiali, tuttavia, pur conosciuto, non riuscì mai veramente “a sfondare”: dalla letteratura trasse sempre scarsi proventi, guadagnandosi la vita soprattutto con l’insegnamento privato, non essendo riuscito ad ottenere cattedre pubbliche. Ebbe un grande e tormentato amore per una popolana cortonese, Carolina Bonaiuti, bella quanto infedele, che nelle sue poesie chiamò Glicera e per lei, nel 1811, fu ferito in un duello.
Dopo l’Unità la figura di Benedetti potè essere adeguatamente onorata.
A Pistoia, dove l’“infelicissimo” poeta fu nel 1821 rapidamente sepolto in una fossa anonima, lo ricordano due lapidi, una posta nel 1865 al cimitero della Misericordia, ed un’altra nel 1886, sulla casa del suo suicidio, mentre altre due lapidi onorano Benedetti nella sua Cortona: la prima posta nel 1898 sulla sua abitazione natale dal “Consorzio degli Operai” e la seconda nel 1921 in via Ghibellina dalla “comunità cortonese” che nel «centenario del suo sacrificio» volle ricordare «l’apostolo, lo scrittore e il martire», forse letterato non eccelso, ma indubbiamente grande per «amor di Patria e odio ai tiranni».
Carlo Onofrio Gori
Bibliografia:
S. Marioni, Benedetti Francesco (1875-1821), Arezzo, Prem. stab. punta. Operaio E. Sinatti, 1897.
F. S. Orlandini, Opere di Francesco Benedetti, Firenze, Felice Le Monnier, 1858.