Anton Francesco Menchi e Bartolomeo Sestini, poeti in “Ottavina”
Due pistoiesi fra i grandi della poesia estemporanea dell’ottocento
La poesia estemporanea trae la sua lontana origine dal canto dei trovatori franco–provenzali, e fin dai fasti della Firenze rinascimentale trovò in Toscana un terreno fertile per affermarsi e svilupparsi: tant’è che fino ai primi anni del boom economico sulle aie, nelle osterie, ai matrimoni o alle feste paesane non era difficile imbattersi in qualche “bernascante”(dalla poesia giocosa di Francesco Berni) che avesse il dono naturale di “cantar di poesia” su un argomento suggeritogli solo qualche istante prima, sovente misurandosi in gare con altri poeti estemporanei dette “contrasti”. Tutt’ora una ventina di “superstiti” cultori dell’improvvisazione poetica ogni anno si ritrovano in Maremma al festival di Ribolla, ma quello che oggi è circoscritto ad un momento di riscoperta folkloristico–culturale, tutto sommato “di nicchia”, che ha coinvolto anche noti personaggi dello spettacolo come Francesco Guccini, Davide Riondino, Roberto Benigni, in epoche passate si presentava come un vero e proprio fenomeno sociale.
Infatti nel Settecento il far versi divenne quasi una mania ed è soprattutto tra la seconda parte di questo secolo e la prima parte dell’Ottocento, che la “poesia a braccio”, particolare aspetto del verseggiare, divenne moda dilagante non solo in Toscana, ma in tutt’Italia ed anche all’estero. La figura dell’improvvisatore, singolare sintesi di abilità tecnica e di “spontaneità”, coinvolgeva in quegli anni sia il popolo, che sulle piazze ascoltava divertito ed estasiato le esibizioni di poeti “semplici” che così sbarcavano il lunario, sia i borghesi ed i nobili che riempivano teatri e salotti per assistere alle “accademie” estemporanee che poeti “dotti” praticavano come vero e proprio redditizio mestiere. In ambito popolare l’argomento dell’improvvisatore era di solito incentrato con tono scherzoso sui fatti del giorno, mentre invece nella cerchia “bene” venivano sviluppati principalmente temi “seri”, di carattere filosofico o scientifico; in ambedue i casi il metro preferito dal poeta–cantore era l’“ottava rima”, cioè ottave di endecasillabi in rima alternata (ABABAB) e con i due versi di chiusura in rima baciata (CC).
Sarà proprio in questo periodo che il territorio pistoiese, dove si manterrà sempre viva questa tradizione, offrirà la sorpresa di due donne–poetesse famose improvvisatrici: la “dotta” Maddalena Morelli Martinez, nota soprattutto col nome arcadico di Corilla Olimpica (1750–1800) e, in anni successivi, l’illetterata poetessa–pastora Beatrice (Bugelli) di Pian degli Ontani (1802–1885) con la quale inizia la storia dell’ improvvisazione moderna, schiettamente popolare, giunta praticamente inalterata fino a metà Novecento.
Ma rimanendo a Pistoia merita ora soffermarsi sulle figure di altri due grandi poeti estemporanei, interessanti non solo dal punto di vista artistico–letterario, ma anche politico, che otterranno, specie nei primi anni dell’Ottocento, un clamoroso successo: Anton Francesco Menchi (1762–1820?) e Bartolomeo Sestini (1792–1822). I due, entrambi pistoiesi “di fuori città”, a parte la comune passione (e l’interesse economico) per l’improvvisazione, erano diversi per età, ambito sociale e, soprattutto, per sentire politico.
Siamo infatti nel periodo in cui l’onda lunga della rivoluzione francese giunge, con le armate napoleoniche, anche in Italia, ed il popolaresco Menchi, per il messaggio “antigiacobino” veicolato dai suoi recitals, è rappresentato come un fior di “reazionario”; mentre il borghese Sestini, raffinato poeta e cantore, ma anche organizzatore carbonaro di alto livello, è senz’altro classificabile come “rivoluzionario”. Paradossalmente il Menchi è oggi ricordato in campo pacifista ed antimilitarista per l’inno Partire, partirò…, canzone da lui composta in funzione antinapoleonica contro il reclutamento coatto dei giovani italiani per la campagna di Russia, mentre del cospiratore Sestini, la cui fama di novelliere romantico è affidata al poemetto La Pia, ispirato all’episodio dantesco del V canto del Purgatorio, si ricordano pochi scritti e performances d’intonazione politica.
Della vita di Anton Francesco Menchi, nato nel 1762 a Cucciano, vicino a Campiglio nella montagna pistoiese, non si sa molto, nemmeno la data esatta della morte, né ci è rimasto un suo ritratto.
La sua più dettagliata ricostruzione biografica resta a tutt’oggi quella dello studioso pistoiese Giuseppe Arcangeli che con lo pseudonimo di Lorenzo Selva, lo commemorò con l’articolo L’ultimo dei giullari apparso nel 1847 su «La rivista di Firenze». Il biografo ci rivela che il suo palcoscenico preferito era Piazza del Granduca (oggi Piazza Signoria) in Firenze dove improvvisava ogni martedì e venerdì, giorni di mercato, davanti una gran folla di campagnoli richiamati dal suo tamburello a sonagli e dall’esibizione della sua inseparabile faina addomesticata. Per l’Arcangeli il Menchi fu il più famoso poeta popolare toscano del suo tempo: «La sua celebrità quanto è piccola per altezza è altrettanto grande per estensione (…) non è contadino del Pistoiese (…) del Lucchese e del Fiorentino che non ne sappia vita, morte e miracoli, non ne citi ad ogni momento (…) i versi di vario metro… i quali hanno avuto più edizioni delle tragedie d’Alfieri e della Divina Commedia. Basti il dire che hanno affaticato i torchi del Marescandoli a Lucca, del Formigli a Firenze, del Vannini a Prato”. E, a riprova di tale notorietà, l’articolista suggerisce di guardare nei “panieri dei merciai, che vanno (…) di casa in casa, a vendere (…) alle ambiziose massaie (…) [dove] accanto alle stringhe, ai bottoni da camicia, agli zolfanelli fosforici, trova un posto onorario anche la letteratura (…) del celebre Menchi».
Se è vero che il Menchi nelle sue performances si schierò con la “reazione”, è altrettanto vero che lo fece sempre con disinteresse certo che dai mutamenti rivoluzionari giunti d’Oltralpe non sarebbero venuti quei vantaggi per il popolo tanto esaltati dai “giacobini” locali. Infatti il suo sentire politico collima con quello dei popolani che affollano i suoi spettacoli e che con il suo obolo gli permettono di vivere, gente che sarà prima di tutto colpita nella sua tradizionale religiosità dalla “miscredenza” e dall’attivismo antipapalino dei francesi e dei loro seguaci e poi, negli interessi e negli affetti, dall’introduzione della leva obbligatoria. Ecco perchè il Menchi, prima scrisse l’inno per l’Armata sanfedista aretina del “Viva Maria”, descrisse poi, ampliandole e drammatizzandole, le angherie cui Napoleone sottopose Pio VII, compose infine quel suo famoso Partire, partirò….
Ma quando, caduto nel 1814 Napoleone e tornato il Granduca, quel popolo, a cui apparteneva lo stesso Menchi, riprende a mormorare contro le ingiustizie dei potenti di turno, ecco che il cantastorie pistoiese è pronto ad interpretarne gli umori con aperte denuncie ed entra così, lui “reazionario”, nel mirino dei poliziotti del Buon Governo granducale.
Di altro ambito e spessore culturale Bartolomeo Sestini, nato il 14 ottobre 1792 a Santomato nei pressi di Pistoia, da Francesco, perito agrimensore e da Maddalena Bigini. Passò i primi anni di vita nella villetta chiamata “La Torricella” ed ebbe come maestro il parroco Stefano Diddi. La sua formazione fu indirizzata verso lo studio della matematica e della geometria, ma anche del disegno che imparò presso il pittore Giuseppe Vannacci di Pistoia, materie che poi approfondì con successo all’ Accademia Fiorentina. Ma i suoi preferiti erano gli studi letterari ed a Firenze conobbe e fu amico del poeta di Cortona Francesco Benedetti, condividendone le idee patriottiche che poi discusse anche con Ugo Foscolo che nella villa di Bellosguardo componeva Le Grazie.
Finiti gli studi si stabilì a Santomato aiutando il padre nella ristrutturazione della villa di Celle e nella costruzione del parco, ma un rapido susseguirsi di disgrazie familiari, iniziato con la morte della madre, poi della donna amata, uccisa da un fulmine e per la quale comporrà nel 1814 sua prima raccolta di poesie Amori Campestri, e concluso con quella del babbo, lo sospingeranno nel baratro di una profonda depressione. Lo salverà l’incontro ed il sodalizio con l’ormai ricco e famoso improvvisatore pistoiese Giovan Jacopo Baldinotti, col quale intraprese quella che sarà la sua vera professione.
Debuttò con successo in una tournée di accademie di poesia improvvisata in Toscana e Romagna e fu probabilmente in questo periodo che, incontrando a Cortona Zanobi Zucchini, uno dei capi della Carboneria toscana, ne divenne un adepto. Quel che è certo è che nel maggio del 1815, dopo esser tornato per breve tempo a Pistoia, uscì allo scoperto partecipando all’ impresa dell’ormai traballante re di Napoli Gioacchino Murat, che appoggiato dalla Carboneria aveva, col proclama di Rimini, incitato gli italiani ad unirsi e combattere per l’indipendenza.
Fu in questa occasione che scrisse l’Inno di Guerra per le armate napoletane, messo in musica dal maestro Rossini; ma la sconfitta di Tolentino vanificò ben presto il velleitario ed ambizioso progetto murattiano e Bartolomeo, dopo esser riparato a Macerata, forte di una fama poetica che ormai andava consolidandosi, poté riprendere nell’Italia centrale la sua redditizia attività di improvvisatore.
In questo periodo pubblica gli Amori campestri (1814), alcune improvvisazioni (Roma 1815), gli Idillj (Pistoia 1816) e nel contempo intensifica il suo pericoloso impegno cospirativo. Ottenuto dai carbonari di Napoli il titolo di “Fondatore Maggiore” con potestà di aprire “Vendite”, ne fa subito buon uso nel 1817 quando, nel corso di una lunga ed acclamata tournée di poesia improvvisata in Sicilia, rimette in sesto la Carboneria isolana aprendo nuove “Vendite” a Palermo, Trapani, Caltagirone, ecc. Scoperto, dopo quaranta giorni di dura galera, viene nel luglio 1819, pare per intervento del Ministro degli esteri del Granducato, espulso ed imbarcato alla volta di Livorno.
Rientrato a Pistoia riprende i contatti con i carbonari locali (dal 1815 la polizia aveva annotato i nomi di Passerini, Focosi, Sozzifanti, Ricci, Monti, Gigli, Maestripieri, Bartolini, Paolini ecc.) e nel contempo, fra la fine del 1819 e l’inizio del 1820, tiene due applaudite e redditizie “accademie” al Teatro dei Risvegliati (oggi Teatro Manzoni): è infatti ormai considerato il migliore degli improvvisatori “colti”, ricevuto nei più esclusivi salotti italiani, tuttavia nel contempo, curiosamente, non disdegna la frequentazione delle bettole fiorentine misurandosi in memorabili “contrasti” col poeta popolare Somigli.
È poi, sempre nella sua doppia veste di poeta–cospiratore, a Firenze, Empoli, Livorno, Genova, in Lombardia; torna infine in Toscana, ma ormai su di lui, considerato «uno dei capi e dei primi introduttori in Firenze della Carboneria» pende mandato d’arresto; ma gli va tutto sommato ancora bene, e con decreto del 16 giugno 1821, viene espulso insieme al fiorentino Vincenzo Montelatici ed Andrea Orsini di Imola.
Lasciata a malincuore la Toscana, e forse messa da parte l’attività cospirativa, lo troviamo nel settembre 1821 a Viterbo, dove compone e rappresenta le tragedie Guido di Monfort e Il Trionfo di Santa Rosa; è a Roma alla fine del 1821 dove, rinverdendo i fasti settecenteschi di Corilla Olimpica, frequenta le accademie degli Arcadi e dei Tiberini delle quali era socio, consolida presso il clero e la nobiltà la sua fama di grande improvvisatore, ed attende alla stesura de La Pia.
È all’apice del successo ed anche la Francia dove – come ricorda il suo biografo Atto Vannucci – «Venti giornali parlavano più volte onorevolmente di lui», lo reclama. Lascia Roma il 20 luglio 1822, sbarca a Marsiglia ed il 12 ottobre è a Parigi dove ottiene il trionfo in varie accademie. Ma alla fine d’ottobre venne «assalito da fortissima infiammazione (…) il 10 novembre entrato in delirio perdè la conoscenza…».
L’11 novembre 1822 si concluse la sua vita, tanto breve quanto intensamente ed onorevolmente vissuta.
Carlo Onofrio Gori