Firenze capitale del Regno d’Italia
1865-1871
Dopo la fuga del Granduca Leopoldo II di Lorena in seguito alla “rivoluzione toscana” del 27 aprile 1859 e l’avvento del governo provvisorio che guidò l’ex–Granducato fino al plebiscito dell’11–12 marzo 1860, che decretò a larghissima maggioranza l’annessione della Toscana al Regno di Sardegna, un trattato, la “Convenzione di Settembre” firmata nel 1864 a Parigi tra l’Italia e la Francia di Napoleone III, determinerà i nuovi assetti di Firenze e della Toscana.
Infatti quell’accordo, teso a normalizzare i rapporti tra il neocostituito Regno d’Italia e lo Stato della Chiesa, oltre a prevedere nell’arco di due anni il ritiro delle truppe francesi da Roma, in cambio dell’impegno italiano a rispettare l’integrità territoriale dello Stato Pontificio, conteneva una clausola segreta che prevedeva il trasferimento della capitale da Torino a Firenze, come atto simbolico di rinuncia a Roma capitale.
Solo dopo il passaggio della Capitale a Firenze infatti molti governi riconobbero ufficialmente a livello diplomatico in nuovo Stato italiano nato nel 1861.
Così dal 1865 al 1871 l’ex–capitale granducale vivrà da protagonista gli avvenimenti politici nazionali scanditi da quattro legislature saldamente guidate dalla destra storica (governi Lamarmora, Ricasoli, Rattazzi, Menabrea e Lanza), dalla malcondotta III Guerra d’Indipendenza (1866) che tuttavia porterà all’annessione del Veneto, dal primo vero grosso scandalo politico dell’Italia post–unitaria, quello della “regìa tabacchi”, dalla sconfitta dei volontari di Garibaldi a Mentana ad opera delle truppe franco–pontificie (1867) ed infine dal risolversi della “Questione Romana” con la Breccia di Porta Pia del 20 settembre 1870 e la proclamazione di Roma Capitale il 1 luglio 1871.
Il trasferimento della capitale a Firenze (in ultimo in ballottaggio al ruolo con Napoli), fu deciso da una commissione di generali, avvenne prevalentemente per criteri di sicurezza militare e non fu indolore: quando fu pubblicata la notizia a Torino, capitale sabauda, scoppiarono gravi incidenti che in due giorni provocarono più di una ventina di morti e centinaia di feriti, mentre il presidente del consiglio Minghetti veniva bruscamente sostituito da Vittorio Emanuele II con il generale Alfonso La Marmora che attuò il previsto trasferimento della capitale. Le polemiche dei piemontesi nei confronti di Firenze non cessarono, ma i fiorentini stessi erano consapevoli che la loro città fosse diventata capitale soprattutto per una “necessità” dettata da accordi politici tanto che anche gli stessi giornali cittadini del tempo, come ad esempio «La Nazione» sono i primi a definirla “capitale provvisoria”. Anche l’editore piemontese Gaspero Barbera, che in quel tempo aveva stabilito la sua attività nella nuova capitale, si schierò dalla parte dei fiorentini offesi: «si pensi a questo compito d’essere capitale che era la cosa peggiore che poteva capitarle!» e Giosuè Carducci, dicendosi solidale con quanto detto dal Barbera interviene nelle polemiche affermando: «La Convenzione di settembre e le sue conseguenze hanno creato uno stato di cose che i piemontesi aborrono, che i toscani non desiderano».
Erano i primi del febbraio 1865, quando Vittorio Emanuele arrivava ufficialmente a Firenze, dopo esservi stato informalmente nel 1860 e nel 1861, per prendere il suo posto a palazzo Pitti.
Firenze, con la sua struttura, non era certamente la più adatta al ruolo che ora le si affidava: infatti al seguito delle corte giunsero in breve in città, che allora contava una popolazione di 150.000 anime, all’incirca altri 20.000 abitanti, fra ministri, senatori e deputati, ambasciatori, giornalisti, funzionari d’ogni livello degli organismi burocratico–statali piemontesi.
Fëdor Michajlovič Dostoevskij, che fu a Firenze due volte, la prima nel 1863 per soli due giorni e la seconda insieme alla moglie Anna Grigor’evna Snitkina dal dicembre 1868 al maggio 1869, quando vi terminò L’Idiota, così scrisse all’amico N.N. Strachov, suo compagno nel primo viaggio, su Firenze nuova capitale del Regno: «(…) quei due giorni a Firenze non li passammo male. Adesso Firenze è alquanto più rumorosa e variopinta, la folla nella strade è enorme. Molta gente è affluita alla capitale: la vita è parecchio più cara di prima».
Ogni palazzo ed ogni casa fiorentini si riempirono e per sistemare i nuovi ospiti si ricorse a ogni escamotage edilizio. Chi ne patì gli effetti peggiori furono i cittadini meno abbienti, infatti i prezzi degli affitti salirono alle stelle e fioccarono gli sfratti tanto da indurre il Comune a far costruire nel 1866, fuori dei nuovi viali di circonvallazione, al di là della porta alla Croce e di quella di S. Frediano, “case” di ferro e legname, praticamente baracche; ma anche questa non fu una soluzione perché i quasi 3000 alloggi costruiti dalla «Societa Edificatrice» che avrebbero dovuto dare una casa a chi non aveva denaro per pagare un fitto alto, furono presi d’assalto da ben altra gente ed anche questi modesti alloggi finirono destinati a chi offriva cifre che i poveri non avevano.
Malgrado queste difficoltà sociali si volle dare decoro alla nuova capitale ed il noto architetto Giuseppe Poggi, che ricevette il prestigioso incarico di studiare il nuovo assetto urbanistico insieme a Tito Gori, suo collaboratore per le «operazioni geodetiche», preparò con celerità un suo piano di “Risanamento” del quale poi molto rimase sulla carta. Tuttavia tracciò le linee di Firenze come oggi la vediamo: una volta abbattute le mura della parte nord realizzò i Viali di Circonvallazione, con alcune piazze scenografiche come Piazza Beccaria e Piazza della Libertà, dagli edifici raccordati stilisticamente sui lati, mentre al centro restavano in isole pedonali le antiche porte trecentesche. Nel Piazzale Donatello Poggi isolò il “Cimitero degli Inglesi”, circondato da cipressi, in un insieme suggestivo che emozionò scrittori e pittori del romanticismo come Arnold Bocklin che vi si ispirò per il suo capolavoro dell’Isola dei morti.
Sempre in questo periodo si completa il quartiere della Mattonaia, che ha come suo centro ideale il bel giardino di piazza D’Azeglio; nel 1873 si realizzerà il mercato di S. Ambrogio; nel 1874 quello di S. Lorenzo con la sistemazione di via dell’Ariento. Muterà poi volto anche il centro cittadino con lo sventramento di interi quartieri fitti di vie e viuzze, come quello del ghetto ebraico – la cui presenza rimane oggi testimoniata dalla foto della collezione dei Fratelli Alinari – per far posto alle attuali Piazza della Repubblica (allora piazza Vittorio), Piazza Indipendenza e Piazza dell’Unità.
Mentre in via della Porta Rossa venivano aperte le prime boutiques all’insegna delle nuove mode parigine, la Firenze elegante che stava uscendo, grazie anche alle passate invasioni francesi, dall’atmosfera un po’ bigotta e sonnolenta che aveva per lungo tempo caratterizzato il Granducato lorenese, continuava a far salotto, a organizzare balli, a riunirsi nei palazzi di città e nelle ville della campagna vicina.
Fra i protagonisti il barone belga Adriano Hoogworst con la bella moglie marchesa Aurora Guadagni; i principi Corsini coi loro prestigiosi palazzi del Lungarno e del Prato; i polacchi principi Poniatowsky, musicisti e artisti, con un salotto di intellettuali; i Bellini Delle Stelle, con la loro casa aperta alle avanguardie letterarie ed un certo spirito di rivalità con il pomeridiano e “impegnato” «salotto rosso» di donna Emilia Peruzzi in Borgo dei Greci, frequentato da Renato Fucini, Edmondo De Amicis ed altri; ed infine i grandi banchieri Fenzi, che da tempo tenevano le fila di quel mondo di stranieri che aveva preso dimora stabile in Firenze, ed ora aprivano le stanze del loro palazzo in stile quattrocentesco di via San Gallo anche alle personalità “forestiere” che arrivavano nella nuova capitale.
Anche nel campo dello spettacolo avvennero notevoli mutamenti, infatti – sebbene il nuovo sovrano, grande frequentatore degli appuntamenti mondani all’ippodromo delle Cascine, raramente si facesse vedere agli spettacoli teatrali – crebbe il numero delle sale: mentre la Pergola restava teatro dell’èlite cittadina, e l’antico Teatro de Il Cocomero prende il nome di Teatro Niccolini, si creano nuovi spazi con l’inaugurazione del Teatro delle Logge Nuove e del Teatro Principe Umberto nel nuovo quartiere di piazza D’Azeglio, si copre il Politeama che cessa così di essere un teatro all’aperto. Ma rimanevano comunque numerosi i teatri primaverili e estivi: Arena Goldoni, Arena Nazionale, Arena fuori di porta San Gallo, il Grande Serraglio delle Indie oltre la porta al Prato. Vi si rappresentava un po’ di tutto: dall’operetta alla tragedia, dagli spettacoli dei domatori a quelli degli illusionisti, dalle gare sportive di lotta greco–romana, a quelle degli atleti impegnati agli attrezzi e, per rimanere nell’ambito sportivo, Firenze vedrà poi, il 1 febbraio del 1870, svolgersi la prima gara ciclistica in Italia: la Firenze–Pistoia.
Firenze diviene anche capitale della stampa, ricchissimo infatti in quel periodo il settore dell’informazione: basti pensare che nel 1870 alla vigilia della Breccia di Porta Pia, dei 723 giornali pubblicati in Italia, 101 saranno pubblicati in provincia di Firenze. Ai fiorentini «La Nazione» «Gazzetta del Popolo» e «Gazzetta di Firenze» (dove, tra l’altro, dal 1863 comincerà a farsi le ossa di giornalista Ferdinando Martini, che diverrà poi uno dei maggiori esponente della politica e della cultura italiana), si affiancano con l’arrivo della Corte innumerevoli fogli stampati nel resto d’Italia.
Tra questi «Il Diritto», organo quasi ufficiale della Sinistra del Depretis, diretto in quegli anni dal pistoiese Giuseppe Civinini, «La Gazzetta Ufficiale», che al contrario di oggi ospitava notizie di agenzia, documenti delle camere ecc., «L’Opinione», giornale di ispirazione cavouriana e organo della Destra al potere, la clericale «Armonia», la «Bandiera del Popolo», il «Contemporaneo» l’«Opinione nazionale», ecc. A Firenze mossero i primi passi anche altre testate tra le quali la «Gazzetta d’Italia» di Carlo Pancrazi, «La Riforma» di Benedetto Cairoli di ispirazione democratica e il «Corriere italiano» di Cesare Correnti e Giuseppe Augusto Cesena, forse il primo caso editoriale dell’Italia unita, in quanto arrivò ad una tiratura di 25.000 copie.
Non mancavano poi anche testate umoristiche come lo «Stenterello» e «l’Asino», e divennero famosissime penne graffianti come Collodi e Yorick, che contrapponevano uno stile arguto e dissacratore in contrapposizione allo stile pedante e noioso di molte firme illustri.
Anche nel campo culturale la città vedrà importanti novità: il primo gennaio 1866 uscirà la «Nuova Antologia» che rinnoverà il prestigio dell’«Antologia» di Giampiero Vieusseux, rivista–vessillo della cultura della nuova Italia, sarà poi fondata la Biblioteca Nazionale Centrale e, dopo quasi quattrocento anni, da quando Lorenzo il Magnifico aveva trasferito lo Studio fiorentino a Pisa, tornerà l’Università con istituti ed insegnanti prestigiosi.
Giungono nella capitale anche noti scrittori come, ad esempio, Luigi Capuana e Giovanni Verga che nel 1869 vi scrive la Storia di una capinera, che uscirà a Milano due anni piu tardi, mentre l’appena ventiduenne sottotenente Edmondo De Amicis, che giunge a Firenze come direttore del foglio «L’Italia militare» vi raccoglierà nel 1868 un’inaspettata fama scrivendo bozzetti de La vita militare.
In via Larga (oggi via Cavour 21) chiude invece nel 1862, dopo dodici anni di meritata fama in campo artistico e letterario, il “Caffè Michelangiolo”, luogo di ritrovo e di vivaci discussioni degli appartenenti al movimento pittorico dei “Macchiaioli”, tra i più significativi e innovativi della pittura italiana dell’Ottocento: la passione artistica e politica dei pittori, patrioti mazziniani e combattenti garibaldini, delusa dall’assetto che sta prendendo la nuova Italia unita, si esprimerà d’ora in poi in sedi decentrate rispetto alla città e cioè nelle esperienze parallele del litorale di Castiglioncello e fra i casolari degli orti di Piagentina, appena fuori Porta alla Croce, con le spalle significativamente ben volte alla nuova Capitale del Regno e a quelle vecchie mura che saranno nel 1866 distrutte.
A bilancio di questo periodo 1865–1871 si noterà che i fiorentini, non solo per motivi patriottici, generalmente accoglieranno di buon grado gli avvenimenti che nel 1870–71 porteranno la capitale a Roma, dolendosi ben poco della declassazione, felici di tornare “al bel tempo antico” e veder partire quei “forestieri” che spesso sui loro giornali avevano irriso alcune tradizioni popolari della città.
Carlo Onofrio Gori