Il “fascismo impossibile” di Berto Ricci
Il sogno di un fascismo di sinistra
Alcuni libri pubblicati dagli anni Ottanta del ‘900 in poi hanno riproposto ad un pubblico più vasto la figura, interessante e controversa del professore fiorentino e “fascista eretico” Berto Ricci (1905–1941), poeta, letterato, matematico, giornalista, la cui memoria in precedenza era rimasta pressoché circoscritta a ristretti ambienti letterari o nell’ambito politico della destra.
Eppure Berto Ricci negli anni Trenta, con i suoi attesissimi Avvisi, che apparivano nella sua rivista «L’Universale», influenzò sensibilmente molti giovani. Il suo anticonformismo piaceva – come rilevò lo storico comunista Paolo Spriano – anche a dirigenti del PCI clandestino, come Ruggero Grieco, e ad altri: ad esempio il grande “eretico” comunista russo Lev Trotzki lo citò in un articolo apparso su un giornale francese, mentre, in Italia, Benedetto Croce nei «Quaderni della “Critica”», nella sua generale condanna del fascismo, assolverà soltanto quei giovani fascisti alla Ricci cui “deve rendersi giustizia”.
In effetti la vita di Berto Ricci, nelle sue scelte politiche apparentemente controverse, ma vissute con intensità e sofferta partecipazione, paradossalmente è stata un paradigma di rara onestà intellettuale e coerenza.
Roberto Ricci nasce il 21 Maggio 1905 a Firenze da famiglia piccolo–borghese. I suoi interessi giovanili testimoniano della sua prima contraddizione: la passione verso la matematica che lo porterà a laurearsi in questa materia nel 1926 ed ad insegnarla nelle scuole superiori e gli interessi poetico–letterari nei quali, fin dai quindici anni, fonde il mazzinianesimo e l’anticlericalismo del primo Carducci con il suo giovanile anarco–populismo. Sono versi di politica come All’Italia, Ode al re; o d’amore come La serenata a Lucia e Amore; o versi in cui si esalta la natura come Vento d’Aprile, Meriggio, Fiore di monte.
C’è altra, di ambito politico, e ben più importante contraddizione nel professor Ricci: Berto, già anarchico, antifascista intransigente e severo critico della sinistra moderata, chiederà poi l’iscrizione al PNF. Non c’è tuttavia nessun calcolo utilitaristico nella sua richiesta di adesione al fascismo, che ormai, siamo nel 1927, sta divenendo “partito–stato” e quindi “regime”: c’è in Ricci la consapevolezza di “volgere al meglio” un potere che si stava consolidando ed è quindi la sua un’adesione ragionata alle idee del “primo Mussolini” che avevano dato vita ad un movimento che, al suo sorgere, si era proposto come “terza via” fra comunismo e capitalismo, un contributo personale al ritorno ai presupposti fondanti di quel movimento e al superamento del successivo compromesso mussoliniano con i “poteri forti” (monarchia, industriali, agrari, chiesa, ecc.).
È quindi la scelta di un fascista che già, fin da neofita, diventa “critico”, verso la retorica “di regime” e che anzi, proprio con l’entusiasmo del neofita, vuole riproporre i postulati sociali del programma sansepolcrista del 1919.
Scriverà Romano Bilenchi che «per capire Berto Ricci bisogna rendersi conto che nel fascismo c’era un’anima di sinistra, (…) E ci nauseava il fatto che Mussolini, pur rispolverando di tanto in tanto il suo “socialismo” si cacciasse (credendo di dirigere il giuoco e in realtà finendo giuocato) nelle mani del re, del papa, della confindustria».
Quando a Ricci verrà chiesto perché non si fosse iscritto prima, risponderà infatti: «Perché ero di idee contrarie».
Per l’opposizione del concittadino Alessandro Pavolini, in quel periodo “federale” di Firenze, Ricci avrà la tessera del partito solo nel febbraio del 1934 (tra l’altro già nel 1935 gli verrà sospesa per la pubblicazione di un articolo di critica ad un’organizzazione del partito) e dopo la notorietà che gli verrà da tre anni di successi de «L’Universale».
È intensa in questo frattempo la sua attività letteraria e giornalistica. Collabora con «Il libro italiano» e un’antologia del 1928, Il Meglio del Petrarca, è la sua prima opera. Conosce il francese, il tedesco, il portoghese e l’inglese e, colto umanista, traduce Ovidio e Shakespeare e scrive numerosi articoli sulle espressioni della letteratura europea contemporanea.
In seguito all’incontro e all’amicizia con quelli che saranno i futuri fondatori de «L’Universale», Ottone Rosai, Romano Romanelli, Gioacchino Contri, Mario Tinti, inizia la collaborazione con la rivista «Selvaggio» di Maccari.
Gli interventi sul quel foglio saranno caratterizzati da trentatré liriche oltre a diverse prose di contenuto anti–borghese scritte con un linguaggio ispirato alla scuola toscana, sarcastico, colorito, tagliente. Ma al di là dell’influsso dell’ambiente vociano e lacerbiano di Papini e Soffici, nella prosa di Ricci si ritrova il Carducci con la sua toscanità anti–retorica e anti–manzoniana e si riscoprono Dante e Jacopone da Todi. Toscanità intesa come italianità essenziale, acuta e popolare, una tradizione culturale che non fosse semplice ripetizione, ma interpretazione della modernità secondo le categorie mussoliniane.
In tal senso Ricci si batterà, tra l’altro, con forza per il progetto dell’architetto razionalista pistoiese Michelucci per la nuova stazione di Firenze e Mussolini gli darà ragione.
Ricci termina nel ‘29 la collaborazione con il foglio vallecchiano, ed inizia una serie di contributi su vari giornali, quali «Critica fascista» ed «Il lavoro fascista», che gli faranno fare la conoscenza di importanti personaggi come Bottai e Volpicelli.
È tuttavia il 1931 l’anno di svolta per Berto Ricci, sia perché escono per Vallecchi i saggi Errori del nazionalismo italico e Lo scrittore italiano, lodato anche da Vittorini ne «Il Bargello», ma soprattutto perché nel gennaio fonda a Firenze il bimensile, «L’Universale» con una redazione di allievi–amici: Bilenchi, Roberto Pavese, Indro Montanelli, Edgardo Sulis, Dino Garrone, Diano Brocchi e Camillo Pellizzi (oltre a quelli già ricordati).
La rivista solleva fin dalle premesse ai lettori una definitiva chiusura con tutto ciò che viene prima. Gli unici maestri riconosciuti non sono che i classici della letteratura toscana, il Machiavelli soprattutto. Niente più lacerbiani e vociani, critiche alla scuola gentiliana, erede dell’idealismo ottocentesco, sberleffi ai “fastidiosi esibizionismi” dannunziani, accuse di “passatismo” ai futuristi per la loro raggiunta accademicità.
In sostanza «L’Universale» si caratterizza come un foglio dell’ala “movimentista” di un fascismo inteso come “rivoluzione permanente”, unica alternativa possibile al liberismo ed al collettivismo e sempre pronto ad attaccare violentemente, negli scritti di Ricci e dei suoi amici, gli “sbandamenti” conservatori, conformisti e reazionari del regime e dei suoi gerarchi.
Ben presto «L’Universale» comincia a dar noia all’autorità ed a scandalizzare i moderati. Ricci scrive infatti che la Russia «con la rivoluzione dei comunisti ha fatto bene a sè stessa» ed elogia gli italiani che avendo dato col fascismo una mazzata al liberalismo e a tutti i socialismi trasformisti, «non possono sentirsi più vicini a Londra parlamentare e conservatrice, che a Mosca comunista (…) L’antiroma c’é, ma non é a Mosca. Contro Roma, città dell’anima, sta Chicago, capitale del maiale».
Ricci tocca poi il tema scabroso della proprietà affermando: «La proprietà inviolabile non é affatto un principio dello Stato fascista (…) La proprietà inviolabile é un dogma liberale non fascista, inglese e non romano: da noi proprietario é depositario e non altro (…) [la storia italiana] é storia di spogliazioni compiute dallo Stato per il popolo». Si dichiara apertamente in contrasto con Gentile e la sua concezione dello Stato etico, oppure, come in un Avviso dell’ottobre 1932, “non entusiasta” del concetto di “corporazione proprietaria”, esposto da Ugo Spirito durante il Convegno di Ferrara.
Inoltre il Manifesto Realista del gennaio 1933, sottoscritto e pubblicato dal Professore e dai suoi amici, definisce sì il «(…) marxismo incompatibile con la natura umana e soprattutto con la natura italiana», ma teorizza che: «Il tramonto inarrestabile del sistema liberale esiga da una parte l’eticità dell’economia, dall’altra la graduale partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende e la fine d’ogni proletariato (…) la società futura avrà a fondarsi sul dovere del lavoro e sul diritto del produttore alla proprietà nei limiti utili allo Stato; (…) e l’iniziativa individuale sia da favorirsi oppure da limitarsi e reprimersi secondo lo stesso criterio».
A tal proposito Gramsci noterà come il fascismo, pur avendo instaurato un regime totalitario senza un’opposizione politica, dovesse tenere a bada giovani critici nati dalle sue stesse fila. E, anche in questo caso, non era una contraddizione da poco se il gerarca cremonese Farinacci dalle pagine del suo «Regime Fascista» accusasse Ricci di “bolscevismo” e se la polizia era di casa in tipografia e il sequestro del giornale fosse sempre un rischio concreto e presente ad ogni numero.
Ruggero Zangrandi a questo proposito afferma: «Non so quali protezioni avesse Ricci, se non quella che gli derivava dal suo temperamento aggressivo e dalla povertà in cui viveva, in una casa modesta, insegnando in un liceo di Prato (il che lo costringeva a andare avanti e indietro ogni giorno) e dedicando il resto del tempo e tutta la sua energia all’impegno che si era assunto di trasformare il fascismo».
Tuttavia Ricci non era uno sprovveduto, riusciva a mantenere in vita «L’Universale» anche costruendosi amicizie importanti e creando così dei rapporti umani che lo salvarono in molte situazioni. Ad esempio, malgrado il contrasto con Gentile, collaborava alla gentiliana «Vita Nova», o ad altri fogli, più o meno allineati, come «Il Cantiere» (di “sinistra”) o il «Secolo fascista» (di “destra”): fondamentale in tal senso anche l’amicizia con Ciano allora direttore dell’ufficio stampa del duce.
Berto Ricci riteneva inscindibile il binomio Mussolini–fascismo, e Mussolini ne ricambiava la stima, leggeva i suoi “Avvisi” e considerava il professore fiorentino quasi il prototipo dell’italiano nuovo nato dal fascismo. Mussolini ricevette infatti a Roma gli “universali”, li incitò a proseguire ed offrì loro la collaborazione a «Il Popolo d’Italia». Ottone Rosai sconsigliò Ricci di accettare, perché probabilmente intuiva il tentativo da parte del duce di controllare direttamente gli “eretici”, forse puntando alla chiusura de «L’Universale», rivista interessante, ma certo troppo aggressiva per quei «finanzieri, industriali e borghesi che in fondo, davano a Mussolini la possibilità di governare».
Berto non è un ingenuo, comprende le intenzioni di Mussolini, ma lo stima troppo per non accettare e quindi comincia a scrivere sul «Popolo d’Italia».
Tuttavia la diffidenza di Rosai, risultò ben motivata: già nel ‘35, in seguito ad ulteriori polemiche arriverà un primo provvedimento di censura de «L’Universale».
Nel frattempo Ricci, che si era sposato nel 1932 e insegnava all’Istituto Tullio Buzzi di Prato, allo scoppio della guerra d’Etiopia sente l’obbligo morale di partire come semplice volontario: «i suoi compagni seppero» – noterà l’amico Paolo Cesarini – «che era un professore soltanto quando i superiori comandi lo inviarono d’autorità a seguire un corso ufficiali a Sanganeti».
Dal giugno all’agosto 1935 Bilenchi, il suo più vicino collaboratore, lo sostituisce nella direzione de «L’Universale» non attenuando i toni polemici della rivista; ma la guerra e l’unanimismo preteso in tali frangenti da Mussolini, contribuiscono alla chiusura del giornale, che avviene il 25 agosto 1935.
Ricci accetta gli ordini del duce e congedandosi dai lettori scrive: «questo giornale finisce quando deve finire, quando il suo desiderio di battaglia e di grandezza trova appagamento nel valore del capo».
Un successivo progetto di varo de «La Tribuna dell’Universale» fallirà sia per ritrosia di Ricci ad insistere presso Mussolini, sia per la sua vincita di un concorso alla cattedra di matematica all’istituto tecnico–industriale “Vittorio Emanuele III” di Palermo. Il trasferimento in Sicilia, non interruppe tuttavia la partecipazione alla vita politica e culturale del giovane reduce attraverso la rubrica Bazar sul «Popolo d’Italia» ed articoli sulla rivista di Giuseppe Bottai «Critica Fascista».
L’importante lettera circolare ai collaboratori de «L’Universale» del 3 aprile 1938 (l’anno delle leggi “in difesa della razza”) scritta per annunciare il tentativo (poi fallito) di rinascita della rivista offre ulteriore testimonianza del pensiero dello scrittore fiorentino.
Riguardo la Germania nazista scrive Ricci: «Rispetto e simpatia per la nazione tedesca (…) avversione assoluta all’ideologia razzista e specialmente a qualunque sua introduzione in Italia».
Sulla giustizia sociale dice: «Un socialismo di Stato anche attuato completamente e cioè una politica di “assistenza” sarebbe semplicemente semplice demagogia (…) bisogna ricreare l’antitesi Fascismo–Capitalismo (…) finché non si organizza su nuove basi la produzione e non solo la ripartizione, si resta nel sistema borghese (…)».
Sul diritto di critica così si esprime: «Affogare nel ridicolo chi vede nella discussione il diavolo; chi non capisce la funzione dell’eresia; chi confonde unità ed uniformità (…) muoversi saper sbagliare. Sapere interessare il popolo all’intelligenza (…) libertà da conquistare, da guadagnare, da sudare (…) una libertà come valore eterno, incancellabile, fondamentale».
Ma in giro qualcosa sta cambiando: si agitano nuovi venti di guerra e alcuni dei più stretti collaboratori di Berto ormai cominciano a perdere fiducia nella possibilità di riportare il fascismo alla sue origini “rivoluzionarie”.
Indro Montanelli lo va a trovare a Firenze e francamente glielo dice. Ricci l’ascolta «senza mostrare né sorpresa né indignazione» e poi gli risponde: «Queste sono faccende in cui s’ha da vedersela con la propria coscienza e nessuno può essere d’aiuto a nessuno (…) pensa a quelli che per restare coerenti con le nostre idee ci sono rimasti (…) e pensa che se imbocchi quella strada devi batterla fino in fondo, fino al confino, sino all’esilio: questo solo ti chiedo, di poterti stimare come avversario, visto che devo cessare di stimarti come amico e alleato. Perché per me, purtroppo il problema non si pone, sebbene le mie delusioni non siano state meno gravi delle tue: sono già convertito e non mi posso riconvertire per la seconda volta».
Romano Bilenchi che lo aveva incontrato per la stessa ragione, così racconta il loro colloquio alla vigilia della partenza di Ricci, per la seconda volta, come volontario per la guerra: «“Tu sei comunista” mi diceva (…) “Io dico quel che ho detto sempre” gli rispondevo “e quel che sempre hai detto anche tu. Non siamo stati certo noi a tradire”. “No” replicava, “bisogna che ci sia qualcuno che faccia il proprio dovere fino in fondo. Io non cambio, queste sono le mie idee”. E io ribattevo (…) “non mi sento di far deleghe a chi mi parte dal verde e mi arriva al turchino”. Ma non c’era verso di fargli cambiare idea: non credeva più ma voleva esser fedele a quello in cui aveva creduto. E ripeteva che andava a combattere contro gli inglesi di fuori per aver poi il diritto di eliminare tutti gli “inglesi” di dentro. Sapevo che non sarebbe tornato. Non tornò».
Infatti Berto fu uno dei pochi privilegiati che muoiono nel momento “giusto”: alle 9.30 del 2 febbraio del ‘41 a Bir Gandula, Cirenaica, venne colpito da uno “Spitfire” inglese mentre, “triste e calmo”, guidava la sua batteria antiaerea.
Moriva a così a 35 anni, risparmiato all’esperienza di Salò (o della Resistenza?!) uno dei maggiori esponenti del fascismo “di sinistra”, quel tipo di fascismo che traeva le proprie origini dalle istanze nazionali, repubblicane, sindacaliste, futuriste, del programma sansepolcrista (una “terza via” fra socialismo e capitalismo) che farà definire a Togliatti nel 1948, rivolgendosi ai superstiti di Salò, come «dovuta per gran parte a malinteso la convinzione che fra noi e una massa ingente di giovani fascisti – esistesse – una distanza enorme». Occorre osservare tuttavia che forse ciò che rendeva “breve” la distanza fra queste due opposte sponde era, oltre al medesimo “sentire sociale”, la comunanza nella devozione per un “capo”, per uno “stato forte”, per un “partito forte”: in sostanza la vocazione al “totalitarismo”.
In effetti molti coetanei di Berto, come lui fascisti “integrali” o “eretici” o “di sinistra”, a seconda dei punti di vista, divennero nel dopoguerra comunisti. Permea infatti la storia del ‘900 il mito, vissuto e sentito in gran parte dell’intellettualità europea, della rivoluzione; un mito “trasversale” che si sottrae alle categorie di “destra” e di “sinistra” e che in sostanza durerà fino alla “caduta del muro”.
Tra le due guerre mondiali, in ambienti di intellettuali, docenti, scrittori e artisti, maturò la convinzione, frutto di una visione estetica e “religiosa” della politica, che la decadenza e la corruzione della società del tempo derivassero dai mali insiti prima nel vecchiume monarchico–conservatore, e poi nel liberalismo, nel capitalismo e nella democrazia parlamentare; e che non esistesse altra prospettiva, fallite le soluzioni innovative, ma controverse, “velleitarie” e “deboli” – dell’anarchismo e del riformismo – che affidarsi ad un partito ed a un leader, capaci di proporre e guidare un processo, “forte” e parallelo, di rigenerazione dell’uomo e di costruzione una civiltà nuova, basata su diverse forme di economia e di Stato.
Tornando alla personale vicenda di Berto Ricci, nel dopoguerra si accese una polemica che, sebbene attenuata, dura tutt’ora: Zangrandi, che lo conobbe, scrisse (e così la pensava anche Bilenchi) che la partecipazione di Berto alla guerra, più volte da lui sollecitata a Pavolini ed infine ottenuta, fu “un consapevole suicidio” mentre la moglie parlò di una decisione dettata da “un punto d’onore” di un amareggiato, ma non di un rassegnato.
La destra dopo averlo allora elevato a “eroe fascista” così lo ricorda anch’oggi in molti siti internet gestiti soprattutto dai giovani che si definiscono come appartenenti alla “destra sociale”.
Carlo Onofrio Gori
Bibliografia:
A. Asor Rosa, Scrittori e popolo, Einaudi, 1988
R. Bilenchi, Amici, Rizzoli, 1988
P. Buchignani, Un fascismo impossibile, Il Mulino, 1993
M. Isnenghi, Intellettuali militanti e intellettuali funzionari, Einaudi, 1979
G. Luti, La letteratura nel ventennio fascista, La Nuova Italia, 1995
L.L. Rimbotti, Il fascismo di sinistra, Settimo Sigillo, 1989
G. Turi, Il fascismo e il consenso degli intellettuali, Il Mulino, 1980
M. Veneziani, La rivoluzione conservatrice in Italia, SugarCo, 1993
R. Zangrandi, Il lungo viaggio attraverso il fascismo, Mursia, 1998