I prigionieri pistoiesi di Napoleone
La peculiare reclusione parigina di cinque gentiluomini
Alcune lettere appartenute all’epistolario di Casa Tonti, raccolte dal nobile Giovanni Scarfantoni e commentate nel 1914 dallo storico pistoiese Alfredo Chiti1, ci narrano di un caso di prigionia dell’anno 1799 che coinvolse cinque facoltosi concittadini: il cav. Baccio Tonti, il cav. Clemente Rospigliosi, il canonico Fabrizio de’ Conti Cellesi, il medico Francesco Talenti ed il dottore in legge Cosimo Trinci, presi «in ostaggio, per quiete di tutto il paese» il 6 maggio e deportati in Francia, insieme ad altri nobili ed ecclesiastici toscani.
L’antefatto è noto: l’Armée del Direttorio impegnata nella Campagna d’Italia, dopo alcuni “passaggi” (1796, 1798) che violarono la neutralità del politicamente tollerante, ma militarmente debole Granducato, nel marzo–aprile 1799 occupò la Toscana2.
Ben presto le requisizioni di cavalli e le continue richieste di imposizioni straordinarie per il mantenimento dei soldati francesi suscitarono nelle comunità toscane un diffuso malumore che generò episodi di disordine.
Il 13 aprile, anche a Pistoia, assente gran parte della guarnigione, si verificò un tumulto di contadini convenuti in città per il mercato che tuttavia, per l’intervento pacificatore del vescovo Falchi Picchinesi e di altri benpensanti, timorosi della reazione francese, si esaurì ben presto. Il giorno seguente mentre il comandante della piazza, il “cisalpino” Peyri, catturava 23 agitatori, il delegato Kerner, comandante la guarnigione, istituiva la Municipalità con a capo Aldobrando Paolini.
La neonata e zelante Municipalità, fra i primi atti, oltre a costituire la Guardia nazionale, indisse una festa patriottica per il 5 floreale (24 aprile). Tuttavia i repubblicani locali, ancora, ma ormai impropriamente, definiti dagli avversari “giacobini”, interessavano soprattutto agli occupanti come fidati intermediari per mantenere l’ordine pubblico ed assicurare le frequenti e forti contribuzioni.
Dopo altri tumulti a Serravalle, Borgo e Pescia (4 e 5 maggio), analogamente a quanto avvenuto in altre parti della Toscana, i francesi si spazientirono: catturarono alcuni nobili ed ecclesiastici e li deportarono come ostaggi in Francia. Lo scopo era chiaro ed efficace: mentre i popolani più riottosi, il “braccio” dei disordini, rimanevano in galera, i maggiorenti locali su cui gravavano le contribuzioni, ritenuti i mandanti, venivano presi in ostaggio con la minaccia di rivalersi su di loro nel caso i disordini fossero proseguiti ed i tributi per l’occupazione non fossero stati regolarmente pagati dai loro parenti. Tra l’altro, per la loro condizione agiata, i deportati potevano sostenere le spese della forzata permanenza nel paese transalpino.
Ciò appare evidente nella prima lettera ricevuta dal Tonti il 7 maggio: Padre Francesco Angelucci lo rassicura che in città ci si sarebbe adoperati per inculcare nella popolazione «calma e obbedienza alla legge» allo scopo di render sollecita la loro liberazione, (in effetti si ebbe in seguito un calo notevole dei disordini), mentre il fratello Jacopo lo informa che, tramite il Banco Cassigoli, gli è stata procurata una lettera credenziale presso i banchieri francesi per mille zecchini fiorentini da utilizzare «…con quella parsimonia che esigeranno le vostre circostanze». Tuttavia, a parte le forzate spese per il proprio mantenimento, la prigionia degli ostaggi toscani non si rivelerà affatto pesante. Nel primo periodo vengono portati via mare a Monaco, occupata dai francesi fin dal 1793 (i Grimaldi potranno ristabilire il Principato solo nel 1814).
All’ombra della Rocca, il Tonti che, sempre estremamente parsimonioso, fa vita ritirata, non manca di rilevare che molti dei suoi compagni di prigionia, soprattutto pisani, fiorentini e senesi, «giuocan come matti; perdono più di cento zecchini alla volta» (evidentemente nella località della Costa Azzurra ha da sempre abitato il genius loci dell’azzardo!), mentre altri cercano di fare i galanti con le donne. Da Pistoia il Tonti viene a sua volta regolarmente informato delle gravose contribuzioni richieste ai possidenti e delle numerose, e “scandalose” per i benpensanti, feste “repubblicane” organizzate in città dai francesi, soprattutto di quella definita “eccezionale” del 2 luglio 1799. Ma pochi giorni dopo questo “evento” pistoiese i francesi, sconfitti dagli austro–russi alla Trebbia (Napoleone era in Egitto) ed incalzati per gran parte della regione dalle temibili bande aretine del moto sanfedista “Viva Maria”, dovettero ritirarsi. Il 4 luglio 1799 Ferdinando III rientrò a Firenze e due giorni dopo le sue truppe occuparono Pistoia dalla quale i francesi se ne erano andati non senza prima aver estorto altre pesanti contribuzioni.
La sconfitta francese in Italia non cambiò la vita degli ostaggi toscani che rimasero per altro tempo prigionieri del Direttorio che sul terreno militare non considerava chiusa la partita. I pistoiesi vengono poi trasferiti in Borgogna, a Mâcon e a Digione, dove rimangono rispettivamente il Tonti ed il Trinci, mentre Rospigliosi, Cellesi e Talenti, con altri toscani, hanno successivamente il permesso di spostarsi a Parigi. Le lettere ci raccontano come l’impatto degli ostaggi con una Capitale ormai lontana dagli eccessi del “Terrore” e nel pieno del suo sviluppo borghese, (sta per trasformarsi nella splendida metropoli degli anni dell’Impero) susciti in tutti il più sfrenato entusiasmo.
I deportati provenienti dall’atmosfera mondana generalmente un po’ bigotta e sonnolenta che caratterizzava il Granducato, compresa la sua Capitale (nella provinciale Pistoia poteva ben definirsi “soporifera”!) sono sbalorditi dalla grandiosità degli edifici, degli spettacoli, dei teatri, soprattutto l’Opera, dalla vita gaia che vi si conduce e qualcuno di loro non è insensibile né alle ultime novità della moda, né al fascino del gentil sesso. I tre pistoiesi più volte invitano il Trinci ed il Tonti a lasciare la provincia borgognona ed a raggiungerli, tanto che lo stesso austero canonico Cellesi, malgrado lo stato ecclesiastico e la salute malferma, così scriverà al Tonti: «Parigi veramente mi ha incantato e sorpreso (…) non mi sarei immaginato una cosa così grande e così bella (…) si sta bene (…) non manca niente (…) non mancano divertimenti e passatempi per ogni sorta di persone di ogni ceto (…) Venite! (…) l’uggia vi uscirà da dosso». Ma nel protrarsi della seppur piacevole, ma dispendiosa, prigionia, qualche punta di nostalgia per i familiari lontani e di preoccupazione per le vicende economiche di casa, sembra emergere negli ostaggi.
Verso la metà di marzo 1800 i tre “parigini”, visto che il Talenti era riuscito a farsi amico qualche politico dell’entourage napoleonico, incaricano in qualità di legale il Trinci, rimasto a Digione, di stendere una petizione indirizzata al Primo Console, per sollecitare il loro ritorno in patria. Napoleone passò la pratica al fratello Luciano Bonaparte, Ministro dell’Interno, che promise di fare il possibile, malgrado fosse un po’ maldisposto per «il cattivo trattamento fatto in Toscana ai patriotti» filofrancesi dopo la ritirata dell’Armée.
Nel giugno del 1800 le sorti della guerra si rovesciano nuovamente: Napoleone vince a Marengo ed in ottobre i francesi torneranno in Toscana. I deportati tuttavia verranno liberati prima: «Nessun’altra notizia ci offre il carteggio» – nota Alfredo Chiti – «che finisce (…) col 28 luglio 1800. Solamente i diaristi pistoiesi fugacemente ricordarono che il 23 agosto seguente i cinque ostaggi tornarono tutti a Pistoia. Il Bonacchi aggiunge che tornarono afflitti». Sorge in noi il malizioso sospetto che questa “afflizione” mostrata dai cinque non fosse in realtà dovuta alle ambasce per la prigionia subita, ma piuttosto… per esser dovuti rientrare a Pistoia!
Del resto qualche decennio dopo (1826) il patrizio pistoiese Niccolò Puccini, in alcune lettere da Parigi, avrebbe scritto alla madre: «Chi non ha visto questo paese non può avere nemmeno una scarsa idea di quello che sia il mondo (…) ho una gran pena di ritornare in Italia»3.
Carlo Onofrio Gori
Note