Aldo Capitini, pacifista rivoluzionario
In ricordo del “Gandhi italiano”
Fu nel pieno di quel “mitico”, ed oggi spesso vituperato, Sessantotto, dell’ormai “secolo scorso”, eccezionale giovanile stagione di fermenti sociali e di entusiasmanti speranze di “immaginazione al potere”, che il 19 ottobre Aldo Capitini moriva a Perugia: la sua personale ed integrale “contestazione al sistema”, diuturna ed implacabile, datava fin dagli anni Trenta, non conoscendo, come poi accadde per quella “sessantottina”, “flussi e riflussi”, ed oggi, a conti fatti, è proprio lui, fisicamente piccolo e goffo, che invece emerge come uno dei più grandi e seri “rivoluzionari” che il nostro Paese abbia mai avuto.
Capitini era nato nel capoluogo umbro il 23 dicembre 1899. Filosofo, educatore, politico, antifascista, liberalsocialista, animalista, laico ed insieme “religioso–scomodo”, l’eccezionale figura di questo intellettuale schivo e dimesso, mite ma intransigente, che in pieno fascismo, andando due volte in galera, fondò il movimento nonviolento del nostro Paese, viene spesso riassunta, dagli “addetti ai lavori” nella definizione di “Gandhi italiano”.
A tutt’oggi sconosciuto ai più, il suo pensiero ed il suo esempio di vita restano il paradigma ammonitorio di come dovremmo tutti diventare per essere migliori e vivere meglio, se ciascuno di noi sapesse mettere da parte arroganza, egoismi sopraffattori e guerrafondai e di come invece non ci riesce (o non vogliamo) essere e non siamo. Insomma un “guardarsi dentro” per cambiare “nel profondo” individualmente e collettivamente, volgendo lo sguardo all’orizzonte.
“Gandhi italiano”, era una definizione sulla quale Capitini aveva molte perplessità: forse perché in questa Italia “civile” e carica di storia non riuscì ad avere il seguito che ebbe il Mahatma nell’allora “arretrata” India ed anche per questo oggi, nel nostro Paese il ricordo di Capitini resta soprattutto legato all’appuntamento biennale della “Marcia (Perugia–Assisi) per la Pace e la Fratellanza dei Popoli” che lui per la prima volta organizzò la Domenica del 24 settembre 1961 (nella foto lo vediamo al centro, con sulla destra Italo Calvino).
Del resto affermò: «Io non dico: fra poco o molto tempo avremo una società che sarà perfettamente nonviolenta (…) a me importa fondamentalmente l’impiego di questa mia modestissima vita, di queste ore o di questi pochi giorni; e mettere sulla bilancia intima della storia il peso della mia persuasione» (Elementi di un’esperienza religiosa, 1937).
Ed in effetti, se non altro, qualcosa del suo insegnamento improntato al rispetto assoluto della vita per tutti gli esseri viventi, uomini ed animali, sembra farsi sempre più strada nelle coscienze di molti – anche in questo periodo che il “potere” ha voluto venisse segnato dalla “novità” di un liberismo consumista egoista e stupidamente violento e sfrenato, salvo poi preoccuparsi per i recenti disastri finanziari e per i loro devastanti effetti – ad esempio nel balenare in qualcuno di una certa consapevolezza del rispetto per gli animali, che in Italia, obiettivamente, non è più quella, praticamente inesistente, di trenta o quarant’anni fa.
Capitini fu uno dei primi animalisti italiani: «Col vegetarianesimo si decide di rinunciare al cibo che comporti uccisione di animali; e con ciò stesso muta il nostro modo di avvicinarci ad essi, il nostro modo di considerarli (…). Questa “sospensione” introdotta nella leggerezza sterminatrice e nella freddezza utilitaria si riflette in accrescimento di valore interiore. Io (…) mi decisi al vegetarianesimo nel 1932, quando, nell’opposizione al fascismo, mi convinsi che l’esitazione ad uccidere animali avrebbe fatto risaltare ancora meglio l’importanza del rispetto dell’esistenza umana.» (Il problema religioso attuale, 1948). Avere sensibilità verso gli animali se non addirittura essere vegetariani, anche se tuttavia rimane un pregio, oggi non è più una virtù di pochi; altro discorso era condividere questa scelta nel 1952, allorché Aldo Capitini fondava con un gruppetto di “alieni” l’Associazione Vegetariana Italiana: una scelta che poteva sembra allora ai superficiali e disinformati come una nostrana imitazione del modello gandhiano, ma che invece aveva radici profonde e sentite. Ma veniamo a ripercorrere brevemente la sua vita.
Figlio di una sarta e di un impiegato comunale, Capitini affronta per necessità economica gli studi tecnici e dopo esser uscito dall’istituto per ragionieri, da autodidatta si dedica dai 19 ai 21 anni alla lettura dei classici latini e greci: a volte studia anche dodici ore avviando così un percorso ininterrotto di riflessione filosofica ed interiore. Le sue letture spaziano da Kant a Kierkegaard a Ibsen, Leopardi, Manzoni, Boine, D’Annunzio, Slataper, Jahier, Michelstaedter, Marinetti, Gobetti; si avvicina poi alla Bibbia e rimane profondamente influenzato dal Vangelo, e da grandi figure, sia religiose che laiche, come Francesco d’Assisi, Mazzini, Tolstoj e Gandhi.
Così, dopo aver vinto una borsa di studio per il curriculum di lettere e filosofia, arriva nel 1924 alla prestigiosa Scuola Normale Superiore di Pisa, diretta dal filosofo fascista Giovanni Gentile, e l’anno dopo ne diventa segretario.
È un periodo in cui il duro scontro fra il regime e la Chiesa sulle funzioni dell’Azione cattolica ha molti strascichi all’interno delle università italiane e in questo ambito Capitini dimostra ben presto la sua indole “scomoda”: i Patti Lateranensi del 1929 lo vedono emergere come critico audace e coraggioso di un Concordato visto come compromesso fra Chiesa e Fascismo («se c’è una cosa che noi dobbiamo al periodo fascista è di aver chiarito per sempre che la religione è una cosa diversa dall’istituzione»).
Matura intanto la scelta del vegetarianesimo come conseguenza estrema della scelta di non uccidere, ed insieme al suo compagno di studi Claudio Baglietto organizza clandestinamente tra gli studenti riunioni serali dove diffonde e discute scritti sulla nonviolenza e la necessità di combattere la menzogna di regime con spirito di apertura verso tutti, senza distinzione di sesso, di razza, di censo.
Riesce per un po’ di tempo a farla franca, ma il caso scoppia quando Gentile propone una decorazione per i suoi collaboratori, fra i quali il segretario Capitini, e quest’ultimo con un lunga lettera espone le ragioni per cui non avrebbe potuto accogliere una onorificenza fascista: «Ho preso in esame (…) dal punto di vista religioso il problema della violenza e l’insegnamento ad avere fiducia in essa, e mi è sembrato che quell’insegnamento sia un errore e riveli mancanza di profonda fede nello spirito perché l’amore è veramente spirituale solo quando è infinita possibilità di amare – e perciò la religione è educazione all’amore – mentre l’amore deliberatamente limitato è idolatria o superstite egoismo». Ciò si aggiunge alla clamorosa presa di posizione di Baglietto, amico di Capitini, che inviato da Gentile con una borsa di studio in una Germania non ancora nazista per seguire i corsi di Martin Heidegger, rifiuta di tornare in Italia in quanto pacifista ed obiettore di coscienza al servizio militare.
Si impongono misure drastiche: Gentile convoca Capitini e dopo un breve colloquio lo licenzia, «Ma non appena il giovane pacifista uscì dalla sala» – come scrive Sergio Romano («Corriere della Sera», luglio 2006) – «il filosofo si voltò verso Francesco Arnaldi, vice direttore della Scuola, (…) e disse “Abbiamo fatto bene a mandarlo via perché, oltre tutto, è un galantuomo”».
Capitini è da allora costretto a tornare nella casa paterna di Perugia, vivendo di lezioni private e tra il 1933–34 intesse una fitta rete di contatti con numerosi amici antifascisti compiendo vari viaggi a Firenze, Roma, Torino e Milano mentre nel 1936, a Firenze, conosce in casa di Luigi Russo, Benedetto Croce, cui affida suoi scritti che il filosofo apprezza e fa pubblicare nel gennaio dell’anno seguente presso l’editore Laterza di Bari con il titolo Elementi di un’esperienza religiosa.
Il libro, nel quale si riflettono le sue idee di libertà individuale e di uguaglianza sociale, riesce ad avere larga diffusione e ben presto diviene uno fra i maggiori riferimenti letterari dei giovani antifascisti: in quest’ambito Capitini promuove assieme a Guido Calogero un progetto politico liberalsocialista che nel 1937 (anno segnato da una forte ondata di violenza repressiva contro l’opposizione antifascista, dall’assassinio dei Fratelli Rosselli e dalla morte di Antonio Gramsci) sfocierà ne Il manifesto del liberalsocialismo.
Nel febbraio 1942 Capitini cade insieme al gruppo dirigente liberalsocialista in una retata della polizia fascista e viene trasferito nel carcere fiorentino delle Murate dal quale verrà rilasciato quattro mesi dopo in virtù della sua fama di “religioso” il che, tempo dopo, lo porterà a commentare: «Quale tremenda accusa contro la religione, se il potere ha più paura dei rivoluzionari che dei religiosi».
Verrà nuovamente arrestato nel maggio dell’anno successivo e tradotto nel carcere di Perugia, e questa volta per la liberazione dovrà attendere la caduta del fascismo del 25 luglio.
Intanto nell’agosto 1943 dal Movimento Liberalsocialista e da “Giustizia e Libertà” nasce il Partito d’Azione: Capitini, coerente col suo rifiuto di collocarsi all’interno delle logiche dei partiti, non vi aderisce e per questo, malgrado il suo notevole contributo all’antifascismo repubblicano rimarrà escluso sia dal CLN che dalla Costituente.
Nel 1944 Capitini fonda a Perugia il primo Centro di Orientamento Sociale (COS), un primo esperimento di democrazia diretta e di decentralizzazione del potere, un ambiente progettuale e uno spazio politico “non violento, ragionante, non menzognero”, aperto alla libera partecipazione degli amministratori locali e dei cittadini.
I COS, che riescono a dar vita con discreto successo ad esperimenti di autogoverno e di decentralizzazione del potere, riusciranno a diffondersi su scala nazionale, ma il successivo, fatale, scontro con l’indifferenza della sinistra e con l’aperta ostilità della Democrazia Cristiana praticamente ne decreterà la fine.
Capitini nel frattempo diviene rettore dell’Università per Stranieri di Perugia, incarico che sarà costretto a lasciare a causa delle fortissime pressioni contrarie esercitate della Chiesa cattolica locale, trasferendosi poi all’Università degli Studi di Pisa, come docente incaricato di filosofia morale.
Parallelamente all’attività didattica, pedagogica e politica Capitini prosegue la sua attività di ricerca spirituale e religiosa promuovendo insieme a Ferdinando Tartaglia, una interessante e dimenticata figura di intelletuale ed ex–prete cattolico di Firenze, il “Movimento di Religione” che dopo una serie di convegni tenutisi negli anni 1946–1948 organizzerà a Roma (13–15 ottobre 1948) il “Primo congresso per la riforma religiosa”.
Nel 1950 Capitini, dopo l’arresto nel 1948 di Pietro Pinna, primo obiettore di coscienza italiano e suo seguace, convocherà a Roma il primo convegno italiano sull’Obiezione di Coscienza.
In occasione del quarto anniversario dell’uccisione di Gandhi, Capitini promuove nel 1952 un convegno internazionale e fonda il primo Centro per la Nonviolenza e sempre in quell’anno affianca ai Centri di Orientamento Sociale il Centro di Orientamento Religioso (COR) con lo scopo di favorire la conoscenza anche di religioni diverse dalla cattolica, e di stimolare i cattolici stessi ad un approccio più critico e impegnato alle questioni religiose.
Ovviamente le alte gerarchie ecclesiali vietano ai fedeli la frequentazione dei COR e quando nel 1955 Capitini pubblica il libro Religione aperta lo inseriscono nell’Indice dei libri proibiti; nonostante ciò Capitini riesce a stabilire fattivi rapporti di collaborazione con figure prestigiose di cattolici “scomodi” come Don Primo Mazzolari e Don Lorenzo Milani, tuttavia anche dopo il Concilio Vaticano II con la pubblicazione del libro Severità religiosa per il Concilio continuerà la polemica tra Capitini e la Chiesa Cattolica.
Nel settembre del 1952 Capitini organizza un convegno su “La nonviolenza riguardo al mondo animale e vegetale” e fonda, come abbiamo già ricordato, la Società Vegetariana Italiana, poi Associazione Vegetariana Italiana.
Dal 1956 Capitini insegna all’Università di Cagliari come docente ordinario di Pedagogia e nel 1956 ottiene il trasferimento definitivo a Perugia. Nel 1959 è tra i fondatori dell’Associazione di Difesa e Sviluppo della Scuola Pubblica in Italia.
È poi del 1961, come abbiamo già detto, la Marcia per la pace Perugia–Assisi: «Aver mostrato che il pacifismo, che la nonviolenza, non sono inerte e passiva accettazione dei mali esistenti – affermerà – ma sono attivi e in lotta, con un proprio metodo che non lascia un momento di sosta nelle solidarietà che suscita e nelle non–collaborazioni, nelle proteste, nelle denunce aperte, è un grande risultato della Marcia» (Opposizione e liberazione).
L’impegno di Capitini per la pace internazionale e contro gli armamenti atomici lo coinvolgerà sempre più in una collaborazione col filosofo Norberto Bobbio, che raccoglierà in frutto di tali riflessioni nel libro Il problema della guerra e le vie della pace.
Negli ultimi anni della sua vita Capitini fonda e dirige un periodico intitolato «Il potere di tutti», sviluppando i principi della gestione diffusa e decentrata del potere che lui chiamava “omnicrazia” e che contrapponeva al centralismo dei partiti e dà vita al Movimento Nonviolento per la Pace ed al mensile «Azione nonviolenta».
Il 19 ottobre 1968, in seguito ad un intervento chirurgico, muore circondato da amici e allievi.
Sulla sua tomba venne scritta l’epigrafe “Libero religioso e rivoluzionario nonviolento”.
Il sociologo Danilo Dolci, suo compagno di tante battaglie, così efficacemente ed umanamente riuscì in poesia (Poema umano, 1974) a sintetizzarne la figura: “Era impacciato a camminare / ma enormemente libero e attivo, / concentrato ma aperto alla vita di tutti, / non ammazzava una mosca / ma era veramente un rivoluzionario, / miope ma profeta.”
Ed a più di quarant’anni dalla morte, guardando ai fatti d’oggi e riflettendo sulla sua opera e sul suo esempio, pur non considerandoci nonviolenti “integrali” ed “assertivi” come era lui, anche noi non possiamo fare a meno di sentire ancora viva e valida la necessità della sua “compresenza”.
Carlo Onofrio Gori